La rinocerontessa Clara, dipinta da Pietro Longhi nel 1751 arrivò dalle Indie a Venezia in occasione del carnevale, dopo una «fortunatissima» tournée europea, a testimonianza del gusto, duro a morire, per l’esotico.

Il quadro, oggi a Ca’ Rezzonico, museo del Settecento veneziano, era stato commissionato a Longhi dal nobiluomo Giovanni Grimani, che possedeva uno zoo privato in terraferma con numerosi animali rari. Nel raccontare figurativamente questo fatto di cronaca che, per l’epoca, costituì un evento, il pittore mostra l’ambientazione, un effimero «casotto» in legno di quelli allestiti in Piazza San Marco per spettacoli e attrazioni di vario genere – saltimbanchi, cavadenti, astrologi, maghi. Ritrae sugli spalti il committente e famiglia, accanto al proprietario dell’animale, Douwe Mout van der Meer, capitano della compagnia delle Indie olandesi, che con orgoglio leva in alto il frustino e il corno asportato. E restituisce le reazioni di stupore e spavento del pubblico, patrizi e borghesi fra cui una bambina. Un effetto di timida ironia si ricava dall’osservare che metà della tela è occupata dall’enorme massa nera del pachiderma, ripreso di tre quarti e intento a mangiare, indifferente, dopo che ha insozzato di sterco lo spazio.

“Il rinoceronte”, Pietro Longhi, 1751

IL RINOCERONTE immortalato dal Longhi fu solo il quinto tra quelli portati ed esibiti in Europa. Prima di lei ci furono l’esemplare giunto alla corte di Filippo II di Spagna nel 1577, altri due esposti a Londra nel 1684 e nel 1739 e quello del 1515, condotto a Lisbona per il re Manuele I, da lui donato a papa Leone X e famoso perché disegnato da Dürer («meravigliosamente mal eseguito in tutte le sue parti», James Bruce) sulla falsariga della lettera di un amico di Norimberga.

Il duca Alessandro de’ Medici ne trasse spunto per il proprio emblema, che ha la figura di quel mammifero (con lo stesso corno di fantasia sulla schiena) e il motto in spagnolo antico: Non vuelvo sin vencer («Non ritorno senza vincere»). Ma, al turno di Clara, che, oltre a essere una bestia inconsueta, era femmina, il successo fu prossimo al delirio. Uscirono libri, epigrammi e canzoni; una nave fu battezzata con il suo nome, di lei parlò Giacomo Casanova e venne perfino lanciata una moda di parrucche alla rinoceronte. Poi più nulla, se ne perse memoria. O quasi. Quale tipo di ricezione avrebbe Clara nella contemporaneità?

È LA DOMANDA a cui risponde Arianna Di Genova nel suo Un rinoceronte in giardino (Mondadori Oscar Primi Junior, pp. 80 euro 9,50). Una fiaba, con illustrazioni di Alessandra Vitelli, che ripensa la storia di Clara con gli occhi e la sensibilità di oggi. Che cosa sarebbe accaduto se Clara avesse avuto un figlio e quel cucciolo proprio a Venezia fosse fuggito e l’avessero ritrovato due bambini sul prato della loro casa?

La triste storia dell’animale bengalese la cui madre era stata uccisa e che era stata ridotta a un fenomeno da baraccone per arricchire un capitano di vascello, fino a morire a soli vent’anni, è qui reinventata dal punto di vista di una bimba che ha il suo nome, Clara, e del fratello Emilio. In questa «versione di mondo», c’è anche un cucciolo che giustamente si chiama Ulisse e sviluppa (come la «madre» della cronaca) una predilezione non comune per le arance e compie un avventuroso viaggio di mare, da Venezia a Corfù, in compagnia dei due giovani aiutanti e di un capitano di lunga esperienza. Non spoileriamo sul finale, che però, a differenza del destino dei rinoceronti, oggi preda dei bracconieri che ne vendono a peso d’oro il corno, per Ulisse sarà lieto.