La leggerezza è quella di un guscio di noce, il sorriso largo di un disarmo avvenuto, tanto tempo fa. Traduttrice e poeta, Chandra Livia Candiani ci ospita nella sua casa milanese invitandoci a togliere le scarpe. E quando, sedute sul tappeto a prendere un tè, inizia a parlare, i suoi occhi cominciano a volteggiare per poi fermarsi, nel giro di uno spavento che è riuscito a trovare riparo.
Conosciuta soprattutto per le sue sillogi più recenti, edite da Einaudi, La bambina pugile e Fatti vivo, la prima raccolta, Sogni del fiume (La biblioteca di Vivarium), risale al 2001. I suoi versi «non fanno appello alle emozioni ma alle visioni, perché le immagini curano». Anche dopo tormenti indicibili, come quelli dell’infanzia massacrata – partendo dalla propria – a cui ha dedicato una raccolta (Vista dalla luna) che arriverà in libreria il 21 per Salani e che, insieme a testi inediti, riprende La porta, lungo poema del 2006. Lettrice della grande poesia russa, da Marina Cvetaeva ad Anna Achmatova, Osip Mandel’stam e altri, legge e frequenta anche quella italiana, tra cui Cristina Campo, Ida Travi, Antonella Anedda.

«Il silenzio è cosa viva» (edito per Einaudi lo scorso anno) è un lavoro in continuità con le sue sillogi precedenti, a partire dal titolo che si riferisce a un verso della sua raccolta del 2007 «Bevendo il tè con i morti» (Interlinea). L’intreccio tra poesia e meditazione che significato ha nella sua formazione?
Ho incontrato la meditazione trentatré anni fa ed è andata a rispondere a una ricerca di scampo da una sofferenza che era diventata insopportabile. In parte avevano risposto le psicoterapie che avevo fatto ma rimaneva un nucleo di domanda, di mancanza insondabile in cui non riusciva a entrare. La meditazione non mi ha fornito una risposta ma mi ha collocata in un luogo in cui la domanda è diventata sostenibile e addirittura l’avvio di una ricerca. La prima cosa che mi ha toccata, che mi ha girato la faccia da un’altra parte, è stata la presa di contatto con il corpo. Sentire il corpo non come un’estraneità ma nemmeno come «Questo sono io». Lo sento piuttosto come una tana, asino buono e a volte testardo, creatura con cui ho una relazione empatica profonda. Aver fatto tana nel corpo mi ha consentito di essere meno esposta agli altri, al contempo dare misura a una estrema sensibilità. La poesia, che mi ha salvato invece l’anima, senza darmi la struttura fisica per poter vivere, si è innescata in simpatia con la meditazione. Quest’ultima mi ha portata a un silenzio più profondo che non è il silenziare, ho avvertito così la coltivazione possibile della poesia. Come se ci fosse un luogo che, se visitato, consentisse possibilità di parola. C’è una collaborazione, una reciprocità tra il silenzio che la meditazione mi ha insegnato, il poter ascoltare voci più sottili, e la poesia che dà voce a ciò che sarebbero altrimenti solo vibrazioni e sensazioni di mondi possibili.

Il luogo simbolico che ha incontrato è anche vuoto pulsante, diverso dallo smarrimento radicale dell’abbandono. È apertura, ampiezza…
Silenzio e vuoto sono due parole che ho rivisitato perché nella cultura occidentale sono diventate stereotipe. Il silenzio è stato per me condanna, quello di chi non può parlare. Ecco perché, soprattutto quando insegno, tengo a non significare il silenzio come un mettere a tacere. Così come, nella meditazione, rifuggo dalla tolleranza verso l’intollerabile, è piuttosto una preparazione all’azione giusta. Lo stesso accade per il vuoto. Io soffro di vertigini e il tema dell’abbandono e della paura dell’abbandono sono temi cruciali. Eppure il vuoto che si scopre ha una qualità diversa, è l’essere «abbandonati a» non «abbandonati da». Quello che temiamo di più è ciò che risponde al nostro bisogno fondamentale. Togliendo, non rimane il niente ma un vuoto vivo, un congedo dalle opinioni rigide che significa assumere su di sé posizioni forti verso il mondo, non il rischio della passività. La meditazione è l’antecedente all’azione giusta, non il distacco. Questo vuoto, spesso tradotto con vacuità – proprio perché della prima accezione si ha terrore -, è un’accoglienza che non avevo mai sentito né dalla famiglia né, per esempio, dalle religioni con cui ho sempre avuto un rapporto contrastato per il mio essere eretica. È uno spazio che allontana la malevolenza dell’essere stati feriti e apre alla compassione, in fondo siamo tutti mortali.

L’esperienza del dolore ha avuto diverse fasi per lei. La prima è stata quella di farsi carico del dolore altrui, la seconda è stata quella di riconoscere il suo. La compassione di cui lei fa cenno ha adesso un senso liberato dall’ingombro?
Sono stata una facchina del dolore degli altri, adesso ho messo giù il bagaglio e faccio compagnia durante il dolore che ognuno ha, che è un viaggio decisivo che ognuno fa e altrettanto importante è che ci sia qualcuno accanto in dei tratti della strada per dirci «Guarda che se ne esce». Portare il bagaglio altrui è impossibile, mi sono massacrata e non credo di aver aiutato nessuno quando per lunghi anni l’ho fatto. La compassione è invece risonanza. Gli altri, che poi siamo noi, hanno forse più bisogno di ascolto non giudicante, di accoglienza. Non di consigli ma di accompagnamento per uscire da situazioni drammatiche. Che senso o non senso dare a ciò che ci capita. Un’altra cosa che mi ha insegnato la pratica della meditazione è che il senso non è poi questa gran cosa. Il senso, e in ciò è intervenuta per me la poesia, è trasversale, leggero, sorprendente. Non credo di cercare il senso ma la vivibilità di ciò che accade a me e agli altri. E che mi squassa.

Le parole sanno nominare le ferite ma sono dotate anche della luce di un incontro. La poesia è un colloquio, una visitazione?
L’accoglienza della ferita è tutto il lavoro con la sofferenza ma anche con la poesia. L’ho imparato, più che nella poesia, dalla persona con cui ho fatto psicoterapia: appunto accogliente, illuminata. Dalla poesia ho appreso che stando con la mutezza, quando non si ha niente da dire, perché niente si può dire, nel buio che si fissa si attende una parola. Il segreto è riuscire a stare a pezzi, fino a che arriva qualcosa che rimette insieme. Io non so cos’è e non nomino cos’è, so però che nella poesia e nella pratica meditativa è sorta una cucitura dei frammenti di me. Quando alcune parole si stagliano sono sì luminose, capaci di rischiarare anche me, vibranti non per il loro contenuto ma per ciò che veicolano, per il loro tessuto, la loro energia. La poesia la vivo come una visita, sì. Un incontro a cui, anche qui, non so dare un nome e che mi ha riportato alla parola «fiducia» senza un oggetto preciso, senza un dio, un mittente. Una fiducia diffusa con una sacralità che lo è altrettanto. Nel lavoro che faccio con i bambini e le bambine cosiddetti stranieri – ma che io chiamo «mondiali» -, nel soffermarsi sul disastro di aver perso una lingua, si percepisce ancora di più cosa significhi la parola che brilla, abitata per la prima volta. Quando per esempio scoprono che anche in una lingua, senza passato per loro, possono avere ospitalità per dire ciò che sta loro a cuore. Che spesso non è solo «Passami l’acqua» ma «Mi manchi». Una nostalgia e un accesso a qualcosa che si è perduto.

Animali, creature piccole. Le sue poesie sono popolate da un vivente che, senza difese, abita la meraviglia e il terrore della terra…
Gli animali, come le bambine e i bambini, non fanno niente apposta. E io preferisco anche una crudeltà non fatta apposta che le nostre piccole cattiverie studiate, le nostre strategie per fare male al prossimo. È compito grato dare voce alle creature apparentemente mute, compresi gli alberi e gli oggetti. Nel periodo dell’opera al nero della mia vita, ciò che mi ha sollevata è stato ricordare che non esiste solo il regno umano. Ne esistono altri, come quello dei morti. Nel regno animale si è spesso molto più visti, accolti. Ho trovato interlocuzioni che non ho più lasciato, la dettatura della poesia mi arriva molto anche da loro. La lingua dei matti, degli animali, dei sassi che ho appreso, fin da piccola, sono state dei modi di comunicare, le ho barattate con la violenza – per anni la sola lingua degli adulti che ho conosciuto.

«Sai aspettare? So bruciare». In questi due versi c’è una forza desiderante, una promessa che permea tutto ciò che scrive, nell’esperienza che si fa corpo. Vi è nell’attesa un ardore?
Un’attesa senza ardore è la meccanica tolleranza di fare la fila alle poste. L’attesa ardente è invece imparare a rispondere senza sottrarsi, non è la reazione. È sentire con tutto il cuore il desiderio, nello spazio dell’esitazione. Anche questo si scopre, il fuoco della risposta arriva ed è bianco. Non brucia l’altro ma lo rischiara. È un processo legato alla mia passione per la verità, dopo anni di menzogne e coperture.

Racconta anche di riti quotidiani. Per esempio la sua bambina pugile che si riconosce tale la mattina quando si guarda allo specchio. O il gesto caldo di fare il pane, che è l’abbraccio capace di radunare tutti gli io…
L’abbraccio è un gesto imprescindibile che suggerisce come non si possa accogliere niente se prima non lo si fa con tutte le parti di noi, anche quelle più scomode, spaventate, nomadi, sfuggenti, violente. Si comprende che non c’è bisogno di arrivare all’interezza, che poi forse non esiste. Siamo invece multipli, plurali. E si ha bisogno di questo abbraccio che tiene. Quando troviamo chi si ferma con noi, che ci tiene ferma anche la terra, nasce l’abbraccio che parte da un interno e non da una forma. Si sente il proprio confine e quello dell’altro, e in quella soglia si trema insieme. Non è una fusione, ci sarebbe il pericolo di scomparire, entrambi. Si sente invece che più di così non c’è.