Anche ammesso che funzioni – e per quanto si è visto finora non è affatto detto, tra guasti, difetti, imprevisti prevedibilissimi ma ignorati: ruggine, salsedine e sabbia nei meccanismi, materiali incongrui, saldature inaffidabili e così via – il vero test per il Mose non sarà certo quello affrontato ieri mattina, alla presenza delle autorità e sotto gli occhi di tutto il mondo.

Come un atleta che, dovendo prepararsi per una maratona in salita e sotto una tempesta, si alleni con una corsetta attorno a casa in un bel mattino d’estate, al debutto del «quasi finito» Mose è stata riservata la migliore, e la più improbabile, delle condizioni operative.

La suspense che tuttavia ha accompagnato lo sforzo di ognuna delle 78 paratoie per sollevarsi dal fondo delle tre bocche di porto che collegano mare Adriatico e laguna di Venezia, la dice lunga sulla fiducia che si nutre in quest’opera, la cui gestazione dura da decenni e che oggi si ipotizza «consegnabile chiavi in mano» alla fine del 2021. Qualcuno, in realtà, ne promette, o ne chiede, l’entrata in funzione anticipata già nel prossimo autunno, in caso di maree eccezionali, e non si capisce se si tratti di una pietosa bugia o dell’annuncio di un azzardo irresponsabile: Venezia farebbe da cavia a un’opera mai testata, neanche parzialmente, in condizioni autentiche di mareggiata, realizzata senza un progetto esecutivo e senza una positiva valutazione di impatto ambientale (oltre che agevolata dai noti meccanismi corruttivi per «aiutarla» a superare le molte obiezioni scientifiche e tecniche).

Ma anche riuscisse perfino quell’azzardo in autunno, il vero test non sarebbe ancora quello. Ammesso e non concesso che funzioni, il Mose affronterebbe solo da allora in poi la vera prova: difendere laguna e città dalle acque alte ma nel nuovo contesto creato dai mutamenti climatici, dal costante aumento del livello medio del mare. Sul filo dell’acqua, Venezia registra in tempo reale quei mutamenti, ma il Mose è stato pensato in un altro tempo, calcolando male e sottovalutando la dinamica del «climate change».

Opera rigida in un contesto mutevole, la sua sola elasticità consiste nell’alzare o abbassare le paratoie. Ma se il livello del mare crescerà al ritmo accertato, se la frequenza delle maree medio alte ed eccezionali aumenterà come sta avvenendo, il Mose si alzerà sempre più spesso.

«Per la prima volta nella storia la laguna è stata del tutto isolata dal mare», è stato trionfalmente annunciato ieri. È esattamente questo il problema: a differenza delle opere alternative (e assai meno impattanti) a suo tempo proposte anche dal Comune di Venezia (e scartate brutalmente dal governo), il Mose può fare solo questo, ammesso che funzioni; ma se lo fa troppo spesso, isolando la laguna, ne condanna a morte l’ecosistema (che vive dello scambio ogni sei ore con il mare, sennò diventa una palude).

Peraltro, condanna anche il porto commerciale e industriale, cuore vitale dell’economia veneziana, uno dei pochi antidoti alla monocultura turistica. È, da sempre, la vera questione sollevata da ambientalisti e scienziati, sempre ignorata, rinviata, mistificata.

Ora ci siamo. Ora comincia la vera storia. Se il governo vuol fare la cosa giusta, in discontinuità col passato, oltre che al check-up funzionale necessario, dovrebbe in primo luogo sottoporre l’opera a questa verifica strategica.