La Breve storia delle macchie sui muri di Adolfo Tura (Johan & Levi, pp. 111, euro 13,00) non è una storia né riguarda propriamente le macchie sui muri ma descrive bene il libro non tanto quanto al soggetto, che è ben enunciato dal sottotitolo, Veggenza e anti-veggenza in Jean Dubuffet e altro Novecento, quanto piuttosto allo stile, obliquo proprio come il rapporto che il titolo intrattiene col suo argomento. L’esperienza comune di osservare una macchia sul muro fino a farvi emergere un’immagine nascosta, che essa racchiude come le fanciulle nelle melarance di una famosa fiaba di Gozzi, non è, infatti, che il punto di partenza per la descrizione di un fenomeno preciso alla cui origine Dalí indicò la facoltà paranoica. Sappiamo bene quel che egli intendesse ottenere rifacendo in flessuose linee modern style le alchemiche stravaganze dell’Arcimboldo o i paesaggi anamorfici di Athanasius Kircher o di Giovanni Battista Bracelli, Tura, tuttavia, non limita questa veggenza, com’egli la definisce, ai pittori surrealisti, che sarebbero stati i primi a impiegarla consapevolmente nel processo creativo, ma la estende al genere umano a cominciare da quel primo australopiteco che «un giorno, fra tre e due milioni e mezzo di anni fa», mentre si muoveva nella valle di Makapan in Sudafrica, raccolse una piccola pietra di diaspro perché, «guardandola, era impossibile non riconoscervi l’immagine di un volto».
Codesta facoltà sarebbe coinvolta tanto negli scarabocchi infantili quanto nei frottages di Ernst, ottenuti a partire da calchi di superfici ruvide o irregolari, mentre non si troverebbe nella pratica consigliata da Leonardo di fermarsi «alcuna volta a vedere nelle macchie de’ muri, o nella cenere del foco, o nuvoli, o fanghi, o altri simili lochi, li quali, se ben fieno da te considerati, tu vi troverai dentro invenzioni mirabilissime, che lo ingegno del pittore si desta a nove invenzioni», in quanto esercizio di arbitraria fantasia, così come in altre forme che similmente alludono «a un limbo plasmante, a figurazioni pre-elementari», come le disse Werner Hofmann. Turi offre una rapsodia di espressioni paranoiche, con un gusto più ameno che sistematico, da Strindberg a Tanizaki, ma trascura lo scrittore che con ogni probabilità ne dispiegò il più largo campionario, E.T.A. Hoffmann: cosa altro è l’apparizione della vecchia venditrice di mele sul picchiotto della porta nel Vaso d’oro se non una percezione paranoica dello studente Anselmo?
Tutte queste manifestazioni nascono da un fraintendimento dell’immagine capace, tuttavia, di creare senso. Qui Tura riprende Nietzsche, affermando che «una visione grossolana indusse a equiparare oggetti diversi e fomentò la capacità di astrazione che diede origine al linguaggio dei concetti» e che questa visione al suo più alto grado è proprio la facoltà paranoica. L’australopiteco, magato dagli accidentali rilievi della pietra, si sarebbe, insomma, ritrovato in una posizione evolutiva privilegiata. Su questi meccanismi si basarono i surrealisti nei loro accostamenti che «tanto più apprezzati quanto più peregrini, presuppongono, per esser gustati, che ogni oggetto mantenga il significato legato al senso comune. (…) Qualora ombrello e macchina da cucito fossero percepiti come pure presenze, la scintilla dell’insolito e dell’assurdo verrebbe a mancare».
Cosa avviene tuttavia nel caso contrario, quando cioè l’oggetto invece di assumere, per via di equivoci associativi, sensi insoliti e diversi, si svuota di quell’unico che gli aveva attribuito il pensiero comune? Tura dà il nome di anti-veggenza a quel disseccamento delle cose al quale ci ha abituato molta arte del Novecento. Gli oggetti tornerebbero allora materia sorda e informe, e il mondo somiglierebbe a una vasta arena di conchiglie cave nelle quali non è più possibile udire il brusio del mare. Anzi, chi le vedesse così disperse sull’immensità di una proda deserta, ragionerebbe di loro come l’Antoine Roquentin de La Nausea – nel passaggio citato da Tura – ragiona della radice del castagno che egli stenta a riconoscere perché «le parole erano scomparse, e con esse il significato delle cose, i modi del loro uso, i tenui segni di riconoscimento che gli uomini hanno tracciato sulla loro superficie».
Una medesima impressione intendono suscitare, continua l’autore, tanto i dipinti di Bonnard quanto l’Hurlope e le Tables paysagées di Dubuffet, i quali offrono la stessa resistenza a essere concettualizzati descritta da Lord Chandos nelle pagine di Hofmannsthal. Ma questa crisi del linguaggio non potrebbe egualmente rintracciarsi in Loos, in Kraus e nel primo Schönberg? D’altra parte i riferimenti a Beckett e Adorno rivelano la consonanza dell’autore a quella linea interpretativa della cultura novecentesca che affonda le sue radici nella Vienna di Wittgenstein.
Ma Tura sembra essere agitato dalla paura di indugiare troppo, sicché, trascorsi appena un paio di paragrafi, Hofmannsthal ha già ceduto il passo a una citazione tratta dagli Artifici di Borges. Egli, si è detto, ha preferito alla distesa esposizione delle fonti l’imprevedibile mossa del cavallo sulla tavola degli scacchi. Ora, accade che ai saggisti in genere riesca di dare unità lirica ai frammenti, agli studiosi non sempre. E non che uno valga più dell’altro, si tratta semplicemente di temperamenti differenti. Oggi ci troviamo forse nel paradosso che, in un’epoca svelta e veloce, si senta più che mai il bisogno di una saggistica arguta, agile, ma che il genere di formazione che presumeva questo tipo di scrittura vada sempre più scomparendo. La Breve storia delle macchie sui muri sarebbe potuta essere uno studio eccellente nel genere del Senso dell’ordine di Gombrich, che, come in parte anche il lavoro di Tura, unisce storia delle immagini e Gestalt, se non avesse voluto essere a ogni costo breve, smart. Non che il libro in questa maniera non si gusti, ma resta l’impressione di una forma non perfettamente pertinente all’argomento e forse anche alle peculiarità dell’autore, che mostra invece ampiezza e originalità di ricerca.
Ma forse non vale la pena di rimpiangere copiosi volumi inesistenti: questa Breve storia, bene impaginata da un editore di qualità, resta una piccola opera intelligente e godibile.