Anche le isole Svalbard, nella parte settentrionale della Norvegia, subiscono gli effetti del cambiamento climatico. Di questo si occupano Nina e Njål, glaciologi e ricercatori che hanno la possibilità di condurre una spedizione proprio in quell’arcipelago artico, «al limite più estremo di ciò che l’essere umano può sopportare». Intorno alla loro relazione si concentra La rabbia dell’orsa, l’ultimo romanzo di Ingebjørg Berg Holm (Carbonio, pp. 300, euro 17, traduzione di Andrea Romanzi).

Lettrice appassionata di John Steinbeck e Graham Greene, dotati secondo lei di compassione e al contempo «divertenti, commoventi e provocatori», Berg Holm esordisce nel 2015 con Stars Over, Darkness Below cui segue Barefoot over the Ice. Questa sua terza prova (l’unica fino a ora a essere arrivata in Italia) è catalogata nel genere thriller. Il libro risponde tuttavia al moltiplicarsi di speculazioni più che di tensioni; le donne e gli uomini descritti dalla scrittrice quarantenne, nata a Larvik ma residente a Bergen, vivono in costante allerta, nell’ascolto profondo di sé, aspettando ed esitando immersi in un paesaggio fuori sesto.

«Sento che questo libro mi ha teso quasi un’imboscata – ci dice Berg Holm – si è riversato in me e ha preso piede». Alla imminente catastrofe causata dal surriscaldamento, i protagonisti e le protagoniste che abitano La rabbia dell’orsa ne presentano altre di minore entità ma ben più vischiose, sono collassi e naufragi che albeggiano tra mura domestiche, nelle scatole anguste delle nostre convenzioni e nel limbo di una sessualità ormai scarnificata. «Non ritengo sia tutto inevitabile, non credo nel destino – prosegue l’autrice – credo però nella capacità umana di riconoscere i propri errori, anche quando si precipita verso il basso».

Il suo romanzo è composto da ritratti, altrettante voci narranti che parlano di se stesse e di quel che il loro sguardo e la loro mente riesce a raggiungere o ricordare. Si distinguono e a volte confluiscono una nell’altra. Sono dei flussi di coscienza?

Potrebbero esserlo. Volevo che ogni personaggio avesse la propria voce distinta, unica ma non caricaturale.
Ho lavorato liberamente per mettere a punto il loro uso delle metafore, le loro associazioni e parole, la struttura e il ritmo del linguaggio, per descrivere le loro diverse posizioni psichiche e consentire a chi legge di entrare intimamente nei loro pensieri.

Nina e Njål lavorano insieme, lui professore più anziano, lei più giovane. Della ricerca scientifica è responsabile Nina ma se la vorrebbe intestare Njål. Ha voluto indagare le conseguenze della disparità di potere tra i sessi?

Cerco di offrire domande più che risposte e desidero esplorare molti lati della dinamica di potere tra uomini e donne, in diversi aspetti della vita. La relazione tra Nina e Njål è sia una relazione di lavoro che amorosa, in questo senso ancora più complicata. Njål è stato il tutor accademico di Nina fino all’inizio della loro storia d’amore, un’altra zona eticamente grigia che trovo interessante da discutere.

Nel suo libro, il tema della maternità è affrontato senza retorica. Soprattutto quando nomina la depressione post-partum oppure la frustrazione di non poter avere figli. In che modo ci ha riflettuto?

Penso di aver scritto un romanzo sulla natura umana, e decidere di avere un figlio la spinge davvero all’estremo. Il sesso, partorire e allattare portano in superficie un’animalità. Nina e Sol, le due donne presenti nel romanzo, sperimentano entrambe le questioni per strade diverse, cioè il modo in cui il corpo possa dirottare un essere umano, indipendentemente dai propri piani e desideri. I miei tre protagonisti si relazionano alla natura in modi diversi, consciamente e inconsciamente. Ciò si riflette nel loro rapporto con il bambino, il paesaggio circostante, la religione e il corpo.

Uno dei fili rossi che sembrano sottendere all’intera trama è infatti il corpo, dissezionato in ogni aspetto, nel suo stravolgimento ma anche nella sua finitudine. Per esempio quando Nina sta accanto alla propria madre senza vita che le appare straniante. Può essere la morte un fatto innaturale?

Sappiamo molto sul corpo, ma ignoriamo cosa sia la coscienza. E gli umani sono forse gli unici animali che sanno cosa pensiamo, possiamo contemplare la nostra stessa coscienza e, di conseguenza, la nostra mortalità. La demenza della madre di Nina fa dubitare la figlia della sua coscienza e dunque della sua umanità. Il suo distacco, quando si confronta con la madre morta, riflette però la loro relazione. Gli umani moderni avvertono un’alienazione davanti allo stato di invecchiamento che comporta la decomposizione della nostra carne. In passato, gli anziani vivevano con le loro famiglie, morire in casa era la norma e mostrare i parenti defunti in soggiorno era un’usanza. La morte doveva essere più naturalmente intrecciata con la vita.

Ci appare ora incomprensibile e impossibile, e un corpo senza vita innaturale, ma la morte e il processo di decadimento sono tra le cose più naturali: il prologo del mio romanzo può essere letto come una contemplazione su quell’evento, spaventoso e bello.

Ci sono segreti dolorosi come il ghiaccio che sovrasta paesaggi di cui intuiamo lo sconfinato splendore. Isole, fiordi, boschi e animali sono un circostante sensibile e incontrollabile. Come la rabbia, l’ossessione, l’impossibilità di dimenticare e tutti i sentimenti che costellano Nina e Sol. In che modo ha fatto entrare in contatto animali e umani e cosa suggeriscono gli uni agli altri?

Ho riflettuto sul tema dei ghiacciai che Nina studia alle Svalbard. In questi spazi, la pressione aumenta gradualmente fino a quando improvvisamente ha un impeto, un processo che viene accelerato dai cambiamenti climatici. È apparentemente caotico, ma solo perché non lo capiamo completamente. Gli umani nel mio romanzo lottano per riconciliarsi con i loro lati inaddomesticati e istintivi. Ciò potrebbe essere più pronunciato in Nina, che trova una sorta di comprensione alle Svalbard. Il contrasto tra civiltà e natura selvaggia è così netto che l’attività umana sembra quasi ridicola e assurda. L’impatto è invece talmente potente che le Svalbard come le conosciamo sono già condannate: il ghiaccio si scioglierà e tutti i ghiacciai si scaglieranno in mare. Eppure la natura selvaggia sembra dominante e Nina si commuove.

Gli umani moderni tendono a vedersi esterni alla natura o al di sopra. Osservarla come una cosa o un fenomeno è un modo di pensare troppo contemporaneo. E la nozione di «ritorno a una vita naturale» lo è altrettanto, oltre a non essere più vera: dopotutto, la civiltà è naturale per gli umani. I miei personaggi principali lottano tutti per riconciliare la loro bestia interiore con la loro umanità, i loro istinti con il loro intelletto. Se abbiamo bisogno di imparare qualcosa dalla natura selvaggia, è che non c’è separazione. Non siamo né al di fuori, né dentro, ne siamo parte.