Del Trovatore di Verdi, recensendo una prima alla Scala di Milano nel 1962, Montale scrisse che si tratta di «un capolavoro zoppicante, eppure stracolmo di ispirazione». Impossibile dargli torto. La drammaturgia del libretto cui diede forma Salvatore Cammarano è un corpo deforme, cosparso di mutilazioni (salti logici e temporali) ed escrescenze (flash back per spiegare ciò che il testo non è capace di mostrare), coperto di una pelle butterata (da brutture lessicali e sintattiche). Ma la musica di Verdi, una «colata di lava quale forse non si ebbe mai nella storia del melodramma» (ancora Montale), redime la pelle e la sagoma di quel corpo irradiandole di una luce che cancella ogni difetto e scolpisce un corpo nuovo, un’armatura scintillante capace di reggere a ogni assalto. O meglio a ogni ascolto. O meglio capace di stabilire il paradigma della perfetta drammaturgia romantica un istante prima che Verdi, proprio per averla fatta sua fino in fondo e saturata, decida di disfarsene.

ECCO ALLORA che sembra (quasi) inutile chiedere a una tale drammaturgia già ricattata dalla musica di essere riscattata dalla regia, la quale per raggiungere questo scopo dovrebbe riscrivere letteralmente il testo. Ma all’opera, diversamente dal teatro di prosa, questa sarebbe un’azione più sacrilega ancora di quella di chi ha vergato le brutture del testo. Insomma, mettere in scena Il Trovatore è impresa da titani e Alvis Hermanis, cui è affidata la cura della regia e delle scene (insieme a Uta Gruber-Ballehr) dell’allestimento in scena fino al 29 febbraio alla Scala, non sembra proprio un titano del teatro lirico. L’idea (?) sarebbe quella di ambientare l’azione di notte in un museo che ospita i più grandi capolavori del Rinascimento italiano e fiammingo, dove un’impiegata si addormenta e sogna di vivere la storia meravigliosa di Leonora, mentre le pareti del museo girano senza sosta. Mentre la drammaturgia gira a vuoto: i deittici, le azioni, le descrizioni del libretto vengono triturate da avvicendamenti sogno/veglia forzosi, da cambi di scene ingiustificati e da una totale assenza di regia.

LA DIREZIONE dell’orchestra è affidata a Nicola Luisotti, che come di consueto appare ben consapevole delle esigenze del dettato verdiano e lo esegue con scrupolo, mantenendo alta la temperatura della lava e allo stesso tempo facendo in modo che la colata non sciupi le mille invenzioni melodiche e armoniche della partitura, cesellate con rara trasparenza. Il problema, e la ragione dei fischi che gli sono piovuti addosso dal loggione, è che ogni tanto si è perso, costretto dai funesti cambi di scena sopracitati a eseguire la musica a blocchi. Liudmyla Monastyrska dà a Leonora una voce così ricca di armonici e duttile nelle dinamiche da oscurare tutti gli altri. Francesco Meli, squillante e voluminoso come sempre, si impiglia nel famigerato e non necessario do di petto della cabaletta. Violeta Urmana parte bene, ma si affievolisce in corsa. Massimo Cavalletti gracchia per tutta l’opera.