Da Verbania all’Alpe di Motta, le tre salite accavallate in rapida successione nell’ultima parte della tappa sono chiamate a decidere il Giro. L’arrivo strizza l’occhio all’impresa di Adorni del ’65. “La più bella maglia rosa dopo Coppi”, la definì Vergani. In realtà quel trionfo di Adorni aprì un’era del nostro ciclismo magari meno epica, ma forse ancor più solida di quella di Coppi e Bartali. Una vera e propria età dell’oro, per i corridori nostri e per la gente al seguito. Il genio organizzativo di Torriani e quello televisivo di Zavoli; i quattrini del miracolo economico, con uno dei più grandi sportivi di tutti i tempi, Merckx, vestito delle insegne di un salumiere brianzolo; e una sequela di campioni senza soluzione di continuità, da Adorni Motta e Gimondi a Moser e Saronni, a Bugno Chiappucci e Cipollini, fino a Nibali nostro ultimo epigono (Pantani fa storia a sé).

La prima parte della tappa, un’escursione in terra elvetica, scorre via veloce, e fa da introduzione all’ascesa del primo e più lungo colle di giornata, il San Bernardino. L’andatura imposta dagli uomini di Yates prima e di Bardet poi serve a mettere nel mirino la fuga, ma non a tirare il collo al gruppo, se è vero che scollinano in una quarantina lì aggruppati. Un segnale non confortante per Yates, prodigo di dichiarazioni bellicose alla vigilia ma evidentemente sospinto a più miti consigli dalla strada. La guerriglia inizia dunque, per una volta, non in montagna, ma in discesa. Attacco secco di Bardet e dei suoi, ai quali si unisce Caruso traghettato da Bilbao. Nella valle ritrovano i fuggitivi di giornata, e si forma così un gruppo di dieci che costringe al logorio i gregari di Bernal, giunto al passo Spluga con mezzo minuto di ritardo.

Si corre ognun per sé, che salti tutto per aria, e non per cementare le posizioni di rincalzo, come troppo spesso abbiamo visto in questi anni. La tappa si trasforma in un toboga, al nuovo scollinamento Bardet e Caruso mantengono un gregario a testa e aumentano leggermente il vantaggio sul gruppo maglia rosa. La salita verso l’Alpe di Motta è la schiena di una vecchia balena grigia e rugosa. Lì va in scena un inseguimento a gruppi, davanti Caruso che invano chiede la carità d’un cambio a Bardet, dietro Martinez che scorta la maglia rosa, con Yates e Almeida che boccheggiano. Per il primato i giochi sono fatti, i vantaggi si cristallizzano, ed anzi è Yates a cedere terreno a Bernal. Rimane da giocarsi l’alloro della tappa fin qui più bella. A coglierlo, dopo essersi scrollato di dosso Bardet, è Caruso, al culmine di una rincorsa lunga una carriera.