Prima o poi il popolo di sinistra in coro dovrà chiedere scusa a Massimo D’Alema. Non che il rottamato leader dal baffo tagliente non meritasse molte delle critiche che lo hanno trasformato nel simbolo di come non si dovrebbe fare una politica limpida, però il rottamatore fa di peggio, e con minore eleganza. Dopo quasi vent’anni, all’allora segretario dei Ds ancora non perdonano la manovra di palazzo che abbattè il governo Prodi. All’imberbe segretario del Pd 2014, viene scontata come se nulla fosse una manovra ben più rozza, tesa a sgambettare il governo Letta con l’appoggio aperto di Berlusconi.

L’intercettazione datata 10 gennaio 2014 tra il futuro presidentissimo e il comdante interegionale della Guardia di Finanza Michele Adinolfi, un amicone di Galliani, non permette dubbi. Il Nazareno doveva ancora nascere, Letta doveva «star sereno». Ma il neosegretario aveva le idee chiare sull’urgenza di sloggarlo da palazzo Chigi grazie al sodalizio con il capo azzurro. Uomo di tweet, dunque di poche parole, Renzi non si perdeva in sofisticate analisi: «Non è capace. Non è cattivo. Non è proprio capace». «Parole che si commentano da sole», si è limitato a replicare l’«incapace» in questione, al secolo Enrico Letta.

L’intercettazione, in effetti, non giova all’immagine di un presidente del consiglio affidabile, ma dato che sul punto nessuno nutriva illusioni, Renzi non se ne preoccupa. Al contario, coglie al volo l’occasione d’oro offerta dai dati Istat sulla crescita della produzione industriale per cantare vittoria su tutti i fronti: «Possiamo e dobbiamo fare di più, certo, ma grazie alle riforma qualcosa si muove». Su Facebook, sceglie un maggior trionfalismo: «La strada è tracciata da un pacchetto di riforme così significative da non avere precedenti. Se queste riforme le avessero fatte quelli prima di noi, ora la nostra economia sarebbe più forte». Chissà che, tra le righe, non ci sia una frecciata anche rivolta a Letta, uno di quelli che, secondo il leader che lo ha spodestato, avrebbe potuto e dovuto fare ma se ne è astenuto.

In realtà, il giubilo del presidente del consiglio è molto parzialmente giustificato, e nell’attribuire a se stesso i meriti addossando ai predecessori la colpa imperdonabile dell’immobilismo di vanagloria ce n’è a carrettate. Sulla carta le nuove assunzioni sono una valanga: scremate da trucchi e trucchetti vari, inclusi i molti indotti dal jobs act, si riducono a un mucchietto. La boccata d’ossigeno della produzione industriale si deve più alle misure di Draghi che al tocco magico del fiorentino, che ha colto un’onda infinitamente più favorevole dei predecessori, ingabbiati nella maglia stretta di un’austerità senza varchi.

La soddisfazione del premier però non è fittizia, e non si deve solo ai dati Istat o all’approvazione della riforma della scuola, capitolo in realtà spinoso, e nemmeno all’imminente passaggio di una riforma Rai concordata di fatto con Mediaset. A far tornare i sorrisoni nei corridoi di palazzo Chigi sono soprattutto gli umori ottimisti sul fronte greco. Per Renzi la Grexit sarebbe un danno politico e un disastro economico, nonostante le rassicurazioni d’ordinanza del ministro Padoan. Ma una vittoria piena di Tsipras sarebbe una sonora sconfitta politica. Il miraggio di una permanenza della Grecia nella moneta unica, ma a prezzo di riforme pesantissime accettate da Tsipras è per palazzo Chigi la soluzione di gran lunga migliore.

La vera nota dolente, quella che impedisce alla squadretta del premier di essere davvero sollevata, è solo in parte rappresentata dalle ombre addensate sulle prospettive d’autunno: la riforma del Senato, dove si dovrà trovare una qualche forma di elettività pena il fallimento, e la manovra economica tutt’altro che leggera dietro l’angolo. Queste sono preoccupazioni reali, e fondate. Ma il cruccio vero è di altro stampo. Il fatto che è le riforme di Renzi, giuste o molto più spesso sbagliate che siano, effettivamente procedono e in Parlamento hanno poco da temere. Solo che, contariamente alle aspettative, non portano il consenso sperato e previsto. La partita vera Matteo Renzi se la dovrà giocare su quel fronte, non tra i banchi di un Parlamento addomesticato.