«Sai, capita spesso che ci venga chiesto che legame abbiamo con la situazione politica. Bene, posso dirti che la risposta migliore sia quanto accaduto al termine del concerto di ieri sera, quando si sono avvicinati due uomini per raccontarci che erano usciti dalla prigione israeliana da una settimana e che il nostro show, era il primo evento pubblico al quale partecipavano dopo venticinque anni. Come se non bastasse, hanno aggiunto che ’In carcere vi ascoltavamo tutti i giorni. Ci avete aiutato a sognare, a vedere la luce, ad avere le ali. Per questo, vogliamo portarvi la gratitudine di tutti i prigionieri’». Si avverte una sincera emozione nelle parole di Samir Joubran; il musicista di Nazareth assieme ai fratelli Wissam e Adnan è stato protagonista di due concerti realizzati a Ramallah, presso l’auditorium del Cultural Palace. Due esibizioni da tutto esaurito coincise con la presentazione di The Long March, ultima fatica discografica del Trio Joubran. A affiancare il gruppo per l’occasione anche il percussionista Youssef Hbeisch e il violoncellista francese Mussou, insieme hanno dato vita a uno spettacolo intenso e vibrante, imperniato in buona parte sulla recente pubblicazione.

UN DISCO significativo per la carriera dell’ensemble, come sottolinea Samir: «Questo album è l’inizio di una nuova era. Con i precedenti abbiamo creato e scolpito la nostra identità mettendo l’oud al centro della scrittura. Con The Long March ci siamo sentiti più liberi, scrivendo nuova musica per il piacere di farlo e seguendo l’ispirazione. Con l’obiettivo di arrivare alla gente, attraverso storie e composizioni che sappiano suscitare emozioni». L’apertura del concerto con il brano Supremacy registrato assieme a Roger Waters, con l’utilizzo da parte di quest’ultimo di un testo del poeta e scrittore palestinese Mahmoud Darwish, è stata la chiave ideale per creare da subito una notevole empatia: «Gli introiti del concerto sono stati devoluti ad un’associazione femminile che si occupa di persone con disabilità mentali. Per noi è prassi: quando suoniamo in Palestina lo facciamo sempre gratuitamente e per beneficenza. È il minimo che possiamo fare, perché qui si soffre ancora molto, ma c’è desiderio di star bene!». Il radicamento territoriale dei Joubran è indiscutibile, riprova ne è la storia familiare che racconta di come i tre siano ad oggi la quarta generazione dedicata all’oud. Una lunga genia che narra di musicisti, cantanti e liutai dediti in toto alla musica. L’artigiano attuale è il secondogenito, Wissam: «Arriviamo da Nazareth e dal 1897 siamo liutai. Il viaggio artistico contemporaneo che stiamo affrontando è partito con Samir, successivamente sono arrivato io e poi è stata la volta di Adnan. A Samir si deve l’inizio di una carriera solista come strumentista, in quanto prima di allora l’oud era sempre stato esclusivamente un mezzo di accompagnamento per cantanti. Non aveva legittimità artistica. Men che mai si erano visti tre oud suonare assieme nella musica araba».

LA RELAZIONE interpersonale è per i Joubran un punto di forza: «Non è facile suonare e lavorare assieme, ma ci riusciamo: c’è amore tra noi, sappiamo cosa mangiamo e cosa pensiamo. Eppure siamo tre compositori con sensibilità diverse. Riusciamo però a superare l’ego personale, ascoltandoci reciprocamente, consapevoli che si tratta di un progetto collettivo». L’impatto sul palco è considerevole, grazie anche alla profonda conoscenza dello strumento: il Trio riesce a far collimare sia la tecnica che le capacità evocative del cordofono.
Entusiasmanti in tal senso le esecuzioni durante il live sia di brani del passato (Masar), alternati a incisioni recenti (The Age Of Industry). L’esperienza con il produttore Renaud Letang (Bjork, Manu Chao, Jean- Michel Jarre), la collaborazione con Brian Eno e le session con Roger Waters, hanno lasciato il segno, attualizzando la matrice artistica del Trio, che ad oggi è sicuramente una delle realtà mondiali più interessanti della world music. In costante equilibrio tra tradizione e innovazione: «La nostra musica ha un bisogno implicito di non pensare solo al passato ma anche al futuro. Ha l’esigenza di andare lontano. E quando scriviamo una nuova composizione con questa idea, cambia qualcosa anche in noi».