Giornalista, autore teatrale e scrittore, Jeroen Olyslaegers è uno dei protagonisti della scena culturale fiamminga. Con Wil (pp. 310, euro 18)), tra i titoli che e/o propone in occasione del Giorno della Memoria, indaga la tragica stagione dell’occupazione nazista di Anversa, una delle capitali dell’ebraismo europeo, che fu apertamente sostenuta da una parte dei nazionalisti locali. Al centro del romanzo, magistralmente guidato dentro l’atmosfera sordida e ambigua della «collaborazione», c’è la figura di Wilfried Wils, un personaggio che ricorda il Lacombe Lucien dell’omonimo film diretto nel 1974 da Louis Malle, un giovane in apparenza privo di ideali e morale, a lungo indeciso tra i tedeschi e la resistenza. In questo caso però, a fare la differenza e a orientare alla fine le scelte del protagonista, saranno soprattutto la sua aspirazione alla poesia e il desiderio di potersi esprimere liberamente.

Wilfried non ama i nazisti ma si arruola in polizia grazie alle conoscenze di un collaborazionista, partecipa alle retate contro gli ebrei ma alla fine ne accudisce uno in un luogo sicuro. Perché esita tanto a scegliere da che parte stare?
Wils vuole diventare poliziotto per salvarsi dal lavoro forzato, dalla deportazione verso la Germania. In lui c’è il desiderio di integrarsi nella società dell’epoca, nel clima che favorì il collaborazionismo, ma anche il rifiuto di ogni regola sociale: si considera un ribelle, un «ragazzo cattivo», se non addirittura il «nuovo Rimbaud». Questo conflitto lo porterà verso la distruzione, ma lo spingerà anche a prendere parte a quanto accade intorno a lui, anche se in maniera istintiva, senza troppe riflessioni. Studiando quell’epoca mi sono reso conto che diversi collaborazionisti erano scrittori o artisti.

Come ha ricostruito il clima dell’epoca e definito il profilo dei singoli personaggi?
Per il romanzo mi sono ispirato ad un rapporto di polizia scritto da un agente che aveva partecipato ai rastrellamenti degli ebrei di Anversa. Un documento che mi ha fornito Herman van Goethem, il maggiore storico dell’occupazione nazista della città. Non volevo scrivere un romanzo sulla guerra, bensì analizzare la psicologia e lo stato d’animo di chi aveva vissuto quelle vicende. Leggendo quel rapporto mi sono interrogato su cosa avesse provato quel poliziotto che aveva annotato ogni minimo dettaglio. Se, per questa via, avesse cercato di fare i conti con la propria coscienza, visto che descriveva un atto di barbarie di cui era stato parte attiva.

Lo scrittore Jeroen Olyslaegers

Il fatto che il protagonista sia un giovane agente della polizia belga in una città occupata dai nazisti introduce anche l’elemento di una sorta di doppia legalità: quella ancora vigente nel paese e quella dettata dalla forza dei tedeschi.
In realtà, le norme rimasero quelle vigenti prima dell’arrivo dei nazisti. Solo che, in particolare nel caso delle retate e quindi della deportazione degli ebrei, il sindaco e i capi della polizia scelsero di ignorarle per assecondare l’occupante. Questo, finché il procuratore generale, dimostrando molto coraggio, dichiarò nell’autunno del 1942 che i poliziotti che partecipavano a queste retate stavano violando la legge. Era un messaggio politico molto chiaro e molto forte a cui ciascuno rispose in modo diverso. Alcuni poliziotti scelsero di sostenere i nazisti, altri no. Alla base del loro comportamento c’erano scelte politiche, ma anche opportunismo e vigliaccheria. Quando parliamo di scelte morali tendiamo a fare riferimento alla differenza tra buono e cattivo, anche se spesso il vero nodo etico corre tra teoria e pratica. E questo accade anche allora.

L’altra grande protagonista del romanzo è la città di Anversa che sembra mostrare il suo volto più sordido e meschino. Malgrado la presenza degli ebrei sia una parte significativa della storia locale, nella storia emerge un clima generale di ostilità che addossa a «questi stranieri» ogni male. Quanto furono radicati e diffusi tali sentimenti?
Durante gli anni Trenta l’antisemitismo dilagò in tutta Europa. E credo che da questo punto di vista, purtroppo ad Anversa le cose andarono come in molte altre città. L’odio si era sedimentato per decenni e non aspettava che l’occasione per uscire fuori: il collaborazionismo diede forma a tutto ciò. Quello che rese la situazione di Anversa particolarmente drammatica, oltre alla presenza di una storica comunità ebraica, fu il fatto che dal 1938 in poi un numero crescente di ebrei aveva trovato rifugio in città fuggendo dalla Kristallnacht della Germania nazista e dall’Anschluss dell’Austria. Si trattava di persone che venivano definite come «rifugiati politici» e che in larga parte non aveva intenzione di rimanere ad Anversa, ma di trasferirsi nel Regno Unito o negli Stati Uniti. All’epoca, il sindaco socialista della città, Camille Huysmans, volle aiutare i rifugiati e accoglierli, ma in molti cominciarono a protestare. Più tardi sarebbero stati tra coloro che appoggeranno i nazisti e la loro politica di sterminio.

Lei scrive che tra le caratteristiche della città c’è «l’avversione a guardarsi allo specchio». A tanti anni di distanza, quale memoria c’è di quella tragedia? Anversa e i suoi abitanti hanno fatto i conti con le loro responsabilità, individuali e collettive?
Credo si possa dire che la città ha gradualmente fatto i conti con il suo passato oscuro. Nel 2007 Patrick Janssens, un altro sindaco socialista locale, ha presentato le sue scuse alla comunità ebraica per il ruolo che tanti suoi concittadini avevano avuto nelle retate e nella razzia dei beni degli ebrei. Un punto di vista che perfino Bart de Wever, il sindaco attuale, malgrado sia un nazionalista fiammingo, ha infine adottato. In questo momento la città si sta interrogando sul modo in cui ricordare la Seconda guerra mondiale e l’Olocausto. Il percorso per sanare le ferite del passato senza nascondere o tacere su nulla, non si può mai dire chiuso del tutto, ma spero che il mio romanzo possa contribuire a questo sforzo. Magari ponendo nuove domande e interrogativi che mantengano attiva la memoria di quanto accaduto.