Sarà ancora epico il Tour senza il Galibier e privo del pubblico acclamante lungo le strade francesi?
Parte oggi da Nizza l’edizione 107 del Tour de France e si concluderà il 20 settembre agli Champs-Elysée lungo un percorso di 3.470 chilometri. Prevista inizialmente il 27 giugno l’edizione 2020 è stata rinviata a causa del Covid-19. Per tre settimane i protagonisti della strada gialla, correranno senza incitazioni del pubblico, che a settembre animerà i luoghi di lavoro e diserterà quelli del Tour. I corridori, come i cavalieri di un tempo per i tornei cavallereschi medievali, si ritroveranno per venti giorni e si studieranno durante la corsa. Cercheranno di applicare la strategia quotidiana elaborata a tavolino dallo staff della squadra, quella che il semiologo francese Roland Barthes in un saggio della metà degli anni ‘50 del secolo scorso intitolato Il Tour de France come epopea ( I miti d’oggi, Einaudi ) chiamava «la tenda», il luogo di studio per eccellenza di ogni mossa: «Il vero luogo epico non è il combattimento, ma la tenda, la soglia pubblica in cui il guerriero elabora le sue intenzioni, da cui lancia ingiurie, sfide, confidenze. Il Tour conosce a fondo questa gloria».

Il guizzo folle
È una gloria di altri tempi, perché quest’anno mancano le cime dei Pirenei, il guizzo di chi attacca all’improvviso, il colpo di testa del campione come degli eterni perdenti senza gloria, che dà la svolta alla corsa e infiamma il pubblico lungo le salite impossibili. È una gloria che non si decide più nella «tenda» di Barthes, cioè nelle stanze d’albergo e nei ristoranti dopo cena tra il ciclista e l’allenatore. Al Tour de France come al Giro d’Italia e alla Vuelta, la corsa la fa la tecnologia, i ciclisti ormai corrono tutti con l’auricolare nell’orecchio e dall’ammiraglia ordinano quando attaccare. Il guizzo folle non esiste più, decide il computer.

Ma il Tour è il Tour, la corsa per eccellenza, una sorta di mondiali di calcio a cielo aperto, gratis e per tutti, e in tempi di sport-business non è poco. È una corsa a tappe che attraversa tutta la Francia, le grandi città, quest’anno Nizza e Lione e poi fino a Parigi, ma soprattutto è la provincia francese la spina dorsale del Tour, benestante e conservatrice, attenta a curare l’ambiente. È la provincia dove trovi il museo del soldatino, quello del cioccolato, il cimitero rigorosamente di fianco alla chiesetta.
A differenza del Giro, il Tour de France è la competizione sportiva che esprime maggiormente l’identità nazionale dei francesi. Attraverso la Grand Boucle la Francia celebra se stessa. Il Tour, a parte qualche spruzzatina europea, per tradizione parte da Parigi e arriva a Parigi agli Champs Elysée e all’Arco di Trionfo, che rappresentano i luoghi simboli della Francia. Ad eccezione dell’edizione di quest’anno, il Tour finisce sempre verso il 14 luglio, a volte a seconda degli anni, proprio quel giorno, una data storica per la Francia perché celebra la presa della Bastiglia. A Parigi vive un quinto della popolazione francese, dieci milioni di abitanti, la seconda città è Lione, tappa d’obbligo di quest’anno, che contende il primato a Marsiglia.

Il Giro d’Italia, invece, non rappresenta affatto una manifestazione sportiva in cui si identifica lo spirito nazionale degli italiani. Il Giro è lo specchio dell’Italia, è il riflesso delle cento città di cui parla Carlo Cattaneo, ognuna delle quali è un Paese. Il poeta Alfonso Gatto, che per l’ Unità seguiva la corsa, (allora si usava mandare al Giro come al Tour le penne più raffinate tra gli scrittori, che scrivevano articoli di colore e facevano da spalla ai veri cronisti sportivi, Pratolini per il Nuovo Corriere diretto da Romano Bilenchi, Anna Maria Orterse per L’Europeo, Indro Montanelli per il Corriere delle Sera), scrisse che il Giro d’Italia sta al Tour de France come nell’arte i Macchiaioli agli Impressionisti.

Oltre la tenda
Ma il Tour non è solo lotta serrata tra ciclisti, è anche il vincitore della maglia gialla Egan Bernal, che pedala sotto i fiocchi di neve sul Tourmalet, è Froome che cade, è Alaphilippe che l’anno scorso perse la maglia gialla tre giorni prima di arrivare agli Champs Elysée, è Indurain con la faccia impassibile che non fa trasparire alcuna fatica in volto, è Pantani che sul Galibier, la cima che lo ha legittimò campione nell’anno dell’accoppiata Giro-Tour, manifesta tutta la sua fatica in volto.

«La tenda» di Roland Barthes si allarga e abbraccia tutto il Tour de France, per dirci che la corsa gialla non può essere ridotto a scontro tra titani delle due ruote, è anche la lotta tra il campione e l’imprevisto, come l’auto che ti sperona, il tifoso che per eccesso di protagonismo e bisogno di sfiorare il campione taglia la strada. La Grand Boucle riguarda anche questi aspetti, che si pongono fuori dall’ambito strettamente tecnico e delle tattiche programmate dal computer durante la tappa e comunicate attraverso l’auricolare.

Protagonisti
Alaphilippe riuscirà 35 anni dopo Bernard Hinault a salire sui Campi Elisi e a far felice i francesi, dopo averli illusi fino all’ultimo nel 2019? Froome, Doumulin e Roglic l’anno scorso costretti alla ritirata, si rifaranno?
L’edizione di quest’anno a causa del Covid-19 e dei possibili contagi, sarà esclusivamente televisiva e forse più degli altri anni la chanson de geste ne risentirà. Per la prima volta dopo tanti anni mancherà anche uno chansonnier d’eccezione, che più di ogni altro ha saputo raccontare il Tour de France: Gianni Mura. Ecco quanto scrisse da Parigi l’anno scorso su la Repubblica nel suo ultimo articolo: «Un bel Tour? No, un bellissimo Tour …In rapporto a una corsa di tre settimane, tormentata dal caldo e bloccata da una grandinata biblica e da una frana, cos’è la bellezza? È l’incertezza, lo scontro aperto, il gusto della sfida, qualcosa di meno meccanico, di più umano. È lo sport che assume varie facce, dalla poesia al dramma, dalle trombe della vittoria alle campane a morto».