Collaboratore storico del New Yorker, esaltato come un autentico genio dell’arte narrativa, definito da Harold Bloom il Proust americano, ma anche oggetto di critiche spietate da parte di chi lo accusava di pretenziosità e di narcisismo, Harold Brodkey è in un certo senso l’autore di un solo libro, del quale i racconti pubblicati nel corso degli anni e raccolti in volumi memorabili come Primo amore e altri affanni o Storie in modo quasi classico rappresentavano i prodromi, le varianti sperimentali o, per usare un termine oggi di moda, gli outtakes.

Primi abbozzi nel 1964
Dopo aver pubblicato nel 1958, e con notevole successo, la sua prima raccolta, Brodkey firmò nel 1964 un contratto con Random House per la pubblicazione di un romanzo che aveva come titolo di lavorazione A Party of Animals. Contratto che, più volte scaduto e più volte rinnovato con altri editori fino ad approdare a Farrar Straus, si sarebbe perfezionato soltanto nel 1991, cinque anni prima della morte per Aids dell’autore, con la pubblicazione di The Runaway Soul: novecento pagine centrate sull’infanzia e la prima adolescenza di Wiley Silenowicz, alter ego di Brodkey e già protagonista di alcuni suoi racconti.

Forse perché atteso come una sorta di miracolo letterario più volte posposto, The Runaway Soul ricevette all’atto della pubblicazione critiche spesso feroci: più che il compimento di una formidabile e idiosincratica carriera fu visto da molti come un’opera minata da un intollerabile autocompiacimento, pretenziosa, masturbatoria, a tratti goffa nella sua ricercata complessità. Perfino i recensori più incoraggianti, come D. M. Thomas, chiamato ad analizzare il romanzo per il New York Times e pronto a coglierne i pregi e il coraggio, non hanno potuto esimersi dal sottolineare come la voce di Wiley – l’intero romanzo è narrato in prima persona – sia «mostruosamente, gigantescamente, incredibilmente goffa e sgradevole», per il moltiplicarsi di avverbi, circonlocuzioni, divagazioni che rende arduo quando non impossibile seguire le acrobazie intellettuali del protagonista.

Ora, a distanza di venticinque anni dalla sua uscita, l’editore Fandango – dopo aver proposto tutte le sue opere, incluso un secondo romanzo di ambientazione veneziana, Amicizie profane, e lo straordinario memoir Questo buio feroce, nel quale Brodkey ha saputo mettere in scena con toni di sobria e distaccata verità la sua morte per Aids, trasformando un potenziale epitaffio in un inno alla vita e all’arte – propone finalmente la versione italiana di The Runaway Soul, L’anima che fugge, (pp. 1064, euro  32,00), affidandola, con risultati eccellenti, a Flavio Santi.

Diviso in dodici parti di lunghezza ineguale, il romanzo segue la vita di Wiley Silenowicz oscillando tra gli anni dell’infanzia e della prima adolescenza – trascorsi nella contea di Saint Louis insieme ai cugini nonché genitori adottivi, S.L. e Lila, e con la sorellastra Nonie (il personaggio più affascinante dell’intero libro), soggetta a improvvisi accessi di rabbia e violenza – e gli anni della maturità, vissuti a New York e segnati dalla piena affermazione come scrittore e dalla relazione ossessiva, sensuale e crudele con Ora (altro personaggio già emerso nelle pagine di Storie in modo quasi classico).

Wiley si presenta fin dalla prima pagina come un uomo «diviso»: nato quando è stato «scodellato fuori in fretta e furia tra le sberle e gli applausi», ma anche e soprattutto quando ha avuto luogo «l’altra nascita – quella di una mente che assume la forma di una persona – tutto quel brusio e mormorio nel cranio – una mente che principia, una mente che vuole così ardentemente conoscere la verità da compiere un immenso sforzo per diventare un ragazzo – e così viene al mondo». Questa duplicità – e tutte le manifestazioni che ne conseguono, a partire dalla coesistenza instabile e a tratti miracolosa tra un intellettualismo quasi masturbatorio e pagine di una fisicità strabordante – rappresenta la cifra ricorrente dell’Anima che fugge.

Una voce senza precedenti
È lo stesso Brodkey a proporre e imporre questa chiave di lettura: se non ci sforziamo di immaginare «una coscienza fatta d’ombra che concepisce se stessa come un ragazzo vero di quattordici anni, addormentato, in carne e ossa nella contea di Saint Louis, nel mese di maggio» del 1944, non saremo in grado di seguire un flusso verbale che, pur disperdendosi a tratti nell’autocompiacimento, nei momenti migliori del romanzo sa acquisire una furibonda, tattile concretezza, quasi che, davvero, il verbo si facesse carne.
L’anima fuggiasca rappresenta la conferma della totale estraneità di Brodkey alla contesa tra postmoderni e minimalisti che ha dominato la scena culturale e letteraria americana per tutti gli anni Ottanta; ma induce anche a dubitare, almeno in parte, delle letture critiche che ne fanno l’erede di un modernismo squisitamente europeo e in particolare proustiano, impegnato a percorrere con inesausta energia i meandri della memoria, alla ricerca perenne e sempre approssimata della frase o del giro di parola che scardini una volta per tutte l’opaco velo del tempo che fugge. Nella furia affabulatoria e nella lacerante fisicità di questo romanzo sembra risuonare, in realtà, una nota molto più americana: una celebrazione e un canto dell’Io, il ritratto di una coscienza che si incarna e abita un corpo di ragazzo, che ha in Whitman e nell’Emerson dei saggi il suo modello forse più autentico.