Le facciate delle ‘case dipinte’, meraviglie urbane e antiche di Pordenone, sfilano lungo Corso Vittorio. Scenografia ideale per camminare accanto a Olivio Martinez. Al tavolo del ristorante, Olivio guarda il suo bicchiere come a voler trovare nel riflesso del vetro e nel colore del vino le immagini di una vita. Suo padre è la prima figura ad affacciarsi.

«Sono nato a Santa Clara, mio padre era a capo di un’Estensione dell’Università. Un iconoclasta, che rifiutava qualsiasi privilegio e parlava otto lingue. A quattordici anni entrai in una fabbrica di tabacco, confezionavo sigari. I soldi che guadagnavo mi servivano per studiare pittura e scultura alla Scuola Provinciale di Belle Arti, la figura del disegnatore allora non esisteva. I materiali erano molto cari, non avrei mai potuto chiedere a mio padre, con lo stipendio che prendeva, di comprarli per me. Al passo successivo mi spinse la Revolución. Entrai nelle file di Fidel, dove ricevevo una paga come topografo. Ero assegnato al Capo delle Operazioni e al Capo dell’Esercito. Ma le sezioni erano sette, e ogni capo mi considerava il ‘suo’ topografo. Disegnavo le mappe che servivano a capire dove contrastare o attaccare l’esercito di Fulgencio Batista prima, e poi i controrivoluzionari, i bandidos assoldati dagli Stati Uniti. Mi recavo sul posto per spiegare come muoversi rispetto alle caratteristiche del territorio. Il mio incarico si fermava qui. Quando scattavano le operazioni, dovevo rientrare. E questo lo rimpiango. L’eccesso di lavoro mi fece ammalare. Il medico disse che dovevo essere congedato. Da un incontro con un amico artista iniziò il mio rapporto con il DOR ».

I tuoi anni al DOR sono segnati dalla campagna per la Zafra, un’esperienza in cui hai unito al tuo lavoro di grafico quello sul campo.

La preparazione dei carteles per la campagna iniziò nel 1969, un anno prima che la Zafra si avviasse. Avevamo quasi tutto pronto, e ci recammo, per diversi mesi, a Camaguey e nel nordest. La Zafra partì, ma a un certo punto Fidel decise fermarla. Nel suo discorso dichiarò che l’obbiettivo dei dieci milioni di canne da zucchero non poteva essere raggiunto, le difficoltà erano troppe e troppo pesanti. Tornai all’Avana, scoprendo che il gruppo di disegnatori cui appartenevo era stato sciolto da una burocrate del partito con la scusa di creare i periodicos murales, inventati da Lenin per supplire alla mancanza di carta. Stampati su una facciata sola, venivano affissi sui muri di fonte alle fabbriche. A Cuba non ho mai visto nessuno fermarsi e discutere davanti a un periodico mural. Per il semplice fatto che riportavano notizie già vecchie, sentite alla radio e alla tv. La gente si fermava sì, ma davanti a un cartel.

Dopo il DOR l’OSPAAL

È lì che, disegnando per anni, ho maturato la coscienza di mettere il mio lavoro al servizio degli altri. OSPAAAL significa confrontarsi con culture diverse, dove, ad esempio parlando dell’uso dei colori, occorre tener conto che il mondo islamico considera il verde un colore sacro. In Asia vale lo stesso per il giallo e in alcuni Paesi per il rosso. Attenzione e rispetto sono regole da avere costantemente presenti. Questo mi ha fatto crescere molto, insieme ai rapporti con artisti di mondi lontani dal mio.

Se tu dovessi disegnare un cartel che rappresenta Cuba oggi, che cartel disegneresti?

Disegnerei la solidarietà che Cuba sa offrire in un modo del tutto particolare. Cuba non fa solidarietà con gli avanzi, come i Paesi ricchi. Qui c’è soltanto il necessario per vivere. Condividiamo con gli altri quel poco che abbiamo. Quando ci fu il terremoto ad Haiti e arrivarono i soccorsi internazionali, noi eravamo lì già da due anni ad aiutare la popolazione. Avevamo offerto medici e infermieri attrezzati, pronti a partire per New Orleans sconvolta dall’uragano Caterina. Gli Stati Uniti li hanno rifiutati.