Il 20 settembre del 1870, guidati dal generale Raffaele Cadorna, i bersaglieri entrano dalla breccia di Porta Pia in Roma. Tre mesi dopo, il 28 dicembre una piena del Tevere inonda la città. Stralcio da un resoconto giornalistico la descrizione di alcuni luoghi quali si presentavano nelle prime ore del pomeriggio di quel giorno: «il Ghetto è interamente coperto dalle acque fino al terzo piano delle case (…) A Ponte Sant’Angelo le onde erano per sorpassare il livello del ponte istesso (…) A piazza Navona, verso palazzo Braschi, la piena arrivava a due uomini di acqua.

I viveri si somministrano, agli abitanti di quelle contrade, col mezzo delle barche. In piazza Colonna ed in altri punti della città si incominciava la fabbricazione di zattere leggerissime, costruite mediante tre botti vuote disposte in senso orizzontale, e inchiodate con tre lunghe assi poste in senso verticale. La costruzione di queste zattere ha durato tutta la notte, e vi hanno concorso spontaneamente molti cittadini». Bisogna dire che a queste periodiche manifestazioni del loro fiume i romani erano abituati da secoli, e poco, malgrado i danni e i disagi, ne erano turbati. E tuttavia, come scrive Alberto Caracciolo, «l’inondazione del dicembre 1870 a Roma è di quegli avvenimenti che, per il momento nel quale avvengono, colpiscono oltre misura l’immaginazione dei contemporanei».

Così tra il popolino dei rioni, ai romani ancora impressionati e alcuni sconvolti in quelle prime poche settimane per il succedersi degli avvenimenti, l’occupazione militare e la stasi amministrativa, quel tracimare delle bionde acque del Tevere (che bionde allora erano ancora) apparve un chiaro avvertimento ai nuovi venuti che hanno violato la sacertà di Roma e oltraggiato il papa, «er viceddio», come lo chiama Giuseppe Gioachino Belli.

La Dea Roma li ammonisce e li mette in guardia: badino bene a quel che fanno e sappiano con chi hanno a che fare.
Un sentimento simile, sette anni dopo, diresti abbia dettato a Giosuè Carducci i versi di Dinanzi alle Terme di Caracalla, una delle Odi Barbare più celebrate: «(…) Gli uomini novelli/quinci respingi e lor picciole cose:/religïoso è questo orror: la dea/Roma qui dorme.//Poggiata il capo al Palatino augusto,/tra ’l Celio aperte e l’Aventin le braccia/per la Capena i forti omeri stende/a l’Appia via».
Gli «uomini novelli» punirono senza indugi il Tevere per la sua ribellione indignata. Avrebbero poi avuto modo e agio di ridurre la Dea Roma in servitù, offesa da speculazioni e traffici ininterrotti e senza scrupoli, alcuni appena camuffati sotto la maschera di retoriche superficiali, enfie ed incolte, dal 1870 ad oggi.

A cominciare dalla retorica, ad esempio, della lapide posta sulla facciata del Campidoglio: «Il popolo romano/poneva questa memoria/a/Vittorio Emanuele II/perché in tanto grave sventura/pronto accorreva/a confortarlo di sua presenza». Presenza. Una fulminea apparizione piuttosto: il re ‘novello’ giunge a Roma alle quattro del mattino del giorno 29 ed alle cinque del pomeriggio è già partito per Firenze. Ma tre giorni dopo, il primo gennaio 1871, altrettanto fulmineo, pubblica un decreto reale che istituisce una apposita commissione per «studiare e proporre i mezzi di rendere le piene del Tevere innocue alla città di Roma».

La prima seduta si tiene, con ineccepibile solerzia, il 10 gennaio. La presiede Carlo Possenti (1806-1872), ingegnere e senatore del Regno, che concepirà un progetto di regolazione a monte e di contenimento a valle delle acque del fiume tale da salvaguardarne il suo corso naturale nella tratta urbana, nel rispetto integrale delle due rive ‘cittadine’, le antiche sponde con i loro palazzi, i giardini e i due porti.

Dopo molte discussioni ed esami, diverse ed alternative soluzioni, quando la commissione chiude i suoi lavori il 7 dicembre del medesimo anno 1871 indicherà un progetto che, con successivi adattamenti peggiorativi, interverrà in modo drastico imbrigliando il Tevere tra argini di contenimento altissimi, gli attuali muraglioni costruiti a prezzo di demolizioni tali da cancellare per sempre non solo i monumenti, ma una modalità cospicua della vita dei romani.