Se la Repubblica di Platone si fondava sulla conoscenza, e su una visione talmente critica dei meccanismi democratici frutto dell’idea di uguaglianza tra gli esseri umani che secondo il celebre pensatore il governo dello Stato non sarebbe potuto spettare che ai filosofi, si potrebbe dire che, più prosaicamente, quella immaginata da Joost de Vries vive invece al ritmo delle fake news, delle stramberie kitsch prodotte dalla cultura pop e rischia di cadere nelle mani di ogni sorta di ciarlatani.
La Repubblica (Bompiani, traduzione di Giorgio Testa, pp. 288, euro 18) è il debutto italiano del 34enne scrittore, considerato come un enfant prodige delle lettere olandesi dopo il largo successo ottenuto nel 2010 dal suo primo romanzo, Clausewitz, e in seguito affermatosi anche come giornalista culturale e commentatore, fa parte della redazione del settimanale De Groene Amsterdammer, sorta di vetrina della sinistra intellettuale locale. È un libro che può essere considerato, per certi versi, come il primo vero tentativo di misurare, attraverso un romanzo, l’impatto conosciuto dal populismo, di destra, e dalla cosiddetta «post-verità» nelle società e nella politica europee.

Divertissement raffinato, ai limiti del postmodernismo, il libro di de Vries raggiunge questo scopo mescolando generi e rimandi tra i più disparati.
Da quelli più esplicitamente narrativi che evocano alcuni personaggi e situazioni dei romanzi di Don DeLillo e l’interesse dell’autore statunitense per la mentalità cospirazionista di certi suoi concittadini, a quelli ispirati alla satira sociale e alla disamina della realtà politica olandese, caratterizzata negli ultimi anni dall’emergere della stella xenofoba di Geert Wilders, il tribuno anti-islamico dalla chioma ossigenata, fino all’eco della grande messe di studi storici dedicati, pure nei Paesi Bassi, al Terzo Reich. Senza dimenticare le «riletture» di quelle vicende contaminate in modi paradossali dalla cultura popolare, come il «mito» di un nazismo risorto in incognito in Sudamerica o la cosiddetta naziexploitation. Tutto ciò, accanto a una serie di rapide allusioni che spaziano dalla filosofia al rock passando per fumetti e videogiochi e che sono tenute insieme secondo un canone narrativo degno di un vecchio romanzo di spionaggio.

Una vicenda, quella narrata da Joost de Vries, che prende avvio dalla morte misteriosa del famoso specialista di studi hitleriani Josip Brik, avvenuta in una stanza d’albergo di Amsterdam, e dalle ricerche che il suo fido braccio destro Friso de Vos, impegnato da anni in uno studio comparato delle vicende della Germania nazista con quelle raccontare ne Il signore degli Anelli di Tolkien, in realtà interessato soprattutto a subentrare al maestro scomparso, intraprende sia per capire cosa sia accaduto al vecchio professore che per svelare la vera identità di un impostore che reclama anch’egli, attraverso interviste a stampa e tv, l’eredità intellettuale, e in qualche modo professionale, dello studioso scomparso.
Il suo romanzo sembra affrontare il modo in cui la cultura pop partecipa ormai stabilmente alla nostra visione della realtà circostante come della storia – si tratti delle vicende del nazismo o della percezione che abbiamo della politica e dei suoi protagonisti. Non è un caso che nel libro compaia anche un personaggio come Wilders che è, prima di ogni altra cosa, un «politico pop», una sorta di showman provocatorio che alimenta una costante campagna elettorale nel segno dell’odio attraverso i social…
In realtà, non ho scritto questo libro pensando in particolare alla situazione politica olandese, ma visto il contesto che trattavo credo che non fare riferimento a Wilders sarebbe stata una vera mancanza. Wilders è una vergogna per il mio paese, ma non si può negare che, a modo suo, sia una persona intelligente e divertente, dotata di una grande capacità di provocazione e di un altrettanto indiscutibile tempismo per i colpi di teatro. Considerazioni che valgono del resto anche per Donald Trump. Si tratta di personaggi in grado di strumentalizzare il contesto in cui si muovono e di approfittare di quello che si potrebbe definire come «lo stile» cui ci ha abituato la cultura pop che è in grado di trasformare tutto in una «narrazione», una storia con un inizio, una torsione intermedia e, magari, un’apoteosi finale. In questo senso, la cultura pop non ha solo plasmato il mondo in cui ci muoviamo, ma ha anche formattato le nostre menti, il modo in cui guardiamo agli altri, spettacolarizzando ogni cosa. Così, ormai osserviamo pure la politica con queste lenti, analizzando prima di tutto come le persone si comportano quando sono sotto i riflettori e non ciò che hanno da dire. Se cerchiamo «lo spettacolo» in ogni situazione, è ovvio che coloro che si presentano come delle star piuttosto che come dei possibili statisti ottengano il massimo dell’attenzione. E anche dei consensi.

I protagonisti del suo romanzo si muovono in un ambito bizzarro, quello di presunti «studi hitleriani» che non sono però alieni da quella stessa impostazione pop che attraversa tutto il libro. Così, prima di morire, Brik ha spedito Friso in Cile per indagare sui casi di famiglie che hanno scelto di chiamare Hitler i propri figli…
Questa è in parte una citazione voluta di White Noise di DeLillo, il cui protagonista è proprio un ambiguo esperto di questa bizzarra branca della storiografia. Volevo descrivere il paradosso di un ambiente accademico che si ritrova in convegni serissimi e in cui circolano pubblicazioni scientifiche e riviste iper-specializzate, ma che al contempo offre cittadinanza a personaggi assurdi, dei veri fuori di testa che passano la loro vita ad analizzare un dettaglio e a paragonarlo ad altre vicende che nulla hanno a che fare con la realtà storica. Come il censimento che compie Friso di tutti gli Hitler dell’America Latina.
Per me era anche un modo di ironizzare su quelle forme di auto-isolamento culturale di cui sono protagonisti coloro che sembrano vivere in un’altra epoca e che costituiscono il proprio orizzonte solo a partire da riferimenti ad avvenimenti specifici cui intendono ricondurre ogni cosa. Non si tratta ovviamente di mettere alla berlina gli storici seri, ma di riflettere sul modo in cui nella nostra epoca si assiste ad una sorta di manipolazione costante della storia, per fini terribili, come tentare di assolvere certe pagine del passato e i loro protagonisti, ma anche per altri semplicemente senza senso. È proprio il caso di Friso che affronta la ricerca storica a partire da un contesto di elementi di fantasia, di rimandi al fantastico. Ha passato trent’anni immerso nell’immaginario pop-culturale del nazismo e ormai confonde il Terzo Reich con gli hobbit.

Prima di morire, Brik si interroga in questi termini: «A cosa ti serve una conoscenza che nessuno conosce?». E spiega come gli incubi considerati reali da tutti hanno più valore, più forza di qualsiasi verità fattuale, e ciò che conta è il modo in cui le idee trovano terreno fertile e continuano a vivere nella nostra immaginazione. Un ritratto della politica di oggi?
Senza dubbio. Basta prendere l’esempio dei Paesi Bassi. Ogni anno i tassi di criminalità scendono, eppure le persone pensano di essere meno sicure per strada e, a ogni nuova campagna elettorale, tutti i politici promettono nuovi stanziamenti per la sicurezza e più poliziotti. Che cosa conta di più: i tassi di criminalità effettivi o la percezione delle persone, le loro paure, che si alimentano di tante cose, a partire dal modo in cui i media parlano delle loro vite? Potremmo dire che i fatti non sono più sufficienti, ci bastano sempre meno per guidarci nelle nostre scelte.
Un bel paradosso, no? Del resto, nel libro c’è una breve dialogo che spiega molto se non tutto da questo punto di vista: «E chi è quello che ha detto che tutta la sua vita gli sembrava un programma televisivo?». ’Warhol’». Oggi, aggiungo io, in quanti possono dire di non riconoscersi almeno in parte quelle parole?