Con i loro ansimanti, decrepiti, motori overboard e gli equipaggi fatti di ragazzi coperti di stracci, a confronto con l’impassibile, gigantesca, massa metallica del mercantile, i due vascelli pirata –puntini che si avvicinano rapidissimi sullo schermo radar- fanno l’effetto di moscerini all’attacco di un elefante. Quell’immagine di sproporzione totale, di assoluta incommensurabilità, è la metafora portante di [do action=”citazione”]Una grossa nave cargo americana, carica di cibo acqua, provvigioni varie e generi di soccorso, solca l’Oceano indiano a 145 miglia di distanza dalla costa dell’Africa occidentale, quando la sua rotta viene intercettata da due barche di pirati somali.[/do]Captain Phillips, il nuovo film di Paul Greengrass che venerdì sera ha inaugurato il cinquantunesimo New York Film Festival.

Autore che, con gli anni, ha integrato il background nel reportage documentaristico televisivo con la dimensione visiva iperadrenalinica e ipertecnologica che caratterizza contemporaneo, Paul Greengrass coltiva la sua fortuna critica alternando il genere puro dei Bourne (suoi The Bourne Supremacy e The Bourne Ultimatum) a film ispirati alla cronaca internazionale Bloody Sunday, sul sanguinario attacco militare inglese contro dei manifestanti irlandesi nel 1972, United 93, sullo scontro tra terroristi e passeggeri/equipaggio a bordo di uno degli aerei dirottati l’11 settembre, Green Zone, sui retroscena post-guerra in Iraq.

Adattato dal libro A Captain Duty: Somali Pirates, Navy SEALS and Dangerous Days at the Sea, Captain Phillips appartiene alla seconda tipologia e ricostruisce al largo della più grande base della marina militare del mondo, a Norfolk, in Virginia, il famoso episodio della Maersk Alabama, caduta nelle mani di quattro pirati somali l’8 aprile 2009 mentre da Oman era diretta a Mombasa. L’arrembaggio si era concluso in un surreale faccia a faccia tra la Marina americana (due corazzate e una portaerei ) e una scialuppa di salvataggio dell’Alabama, su cui si erano rifugiati i pirati portando con sè in ostaggio il capitano del cargo. Dopo circa dodici ore di suspense era stata una squadra speciale di Seals – la stessa che poi uccise Bin Laden, e sotto diretto mandato di Obama- a risolvere la situazione: tre pallottole sparate e tre pirati morti (il quarto, allora un teen ager, sta scontando una condanna di 33 anni nella prigione di Terre Haute in Alabama), incolume il capitano Usa.
Greengrass e il suo sceneggiatore Billy Ray (Shattered Glass) iniziano il film in una casa del Vermont, dove il capitano Richard Phillips (Tom Hanks) è in partenza per un nuovo viaggio.

In macchina, diretto all’areoporto di Boston, discute con la moglie (Catherine Keener) di come il mondo sta cambiando, dei figli che crescono. Nell’aria è già un senso di disagio, qualcosa che non va. Una volta a bordo dell’Alabama, la prima preoccupazione di Phillips è quella di verificare le procedure di sicurezza: gli attacchi pirati sono frequenti su quella rotta. Un alert lanciato dalla marina Usa subito dopo la partenza accentua lo stato di allarme. A riva intanto, le immagini di un villaggio povero, un gruppo di giovani nella notte, ansiosi di essere reclutati da un vecchio warlord, per quella che chiaramente non sarà una spedizione di pesca. Frammenti visivo/sonori di confusione, violenza e miseria – il terzo mondo.

Girato (controtendenza) in 35mm e 16mm, con l’appoggio totale della Marina americana e della Maersk (che ha fornito una nave molto simile all’Alabama), Captain Phillips ha i suoi momenti più efficaci nelle spettacolari scene dell’attacco/arrembaggio –sventato una prima volta quando una barca di pirati si prende paura e il motore dell’altra va a pezzi, ma portato a termine la seconda quando, forniti di un nuovo/vecchio motore, quattro magrissimi ragazzi somali, uno persino scalzo, ma tutti armati fino ai denti, salgono a bordo dove nessuno ha nemmeno una pistola e i venti membri dell’equipaggio sono nascosti nella sala macchine.

Da lì, il film diventa una guerra di nervi e tra due mondi –quello di chi ha e quello di chi non ha- simboleggiati da Phillips (cui Tom Hanks dà un tranquillo, quasi opaco, pragmatismo yankee) e Muse, il capitano dei pirati (l’esordiente Barkhad Abid, nato a Mogadishu, cresciuto in Yemen, e scritturato come quasi tutti gli altri pirati del film nella popolosa comunità somala di Minneapolis). Greengrass e i suoi collaboratori, affidano alle brevi conversazioni tra i due, agli sguardi che si scambiano, all’alternanza tra momenti di calma e crisi di panico, alcune informazioni di background – i somali non possono più mantenersi facendo i pescatori perché i mari sono stati razziati dalle multinazionali della pesca industriale, anche la pirateria è un business di conglomerate internazionali di cui gente come Muse e i suoi uomini sono solo vittime. Nemmeno una briciola dei milioni sognati per il riscatto della nave finiranno nelle loro tasche. L’effetto è didascalico, un po’ Wikipedia «di sinistra». Greengrass, con l’aiuto dall’operatore Barry Ackroyd (dp di molti Loach, di The Hurt Locker e del recente Parkland), non ha il controllo delle immagini di Cameron e Kathryn Bigelow o la passione per i personaggi di Ken Loach o Ron Howard. Il suo è un cinema immersivo ma allo stesso tempo epidermico, fondato su un concetto di realismo che ha più a vedere con una viscerale, deliberata, caoticità del montaggio e dei movimenti di macchina che con «la realtà» – non importa quanti esposizione, o quanti buoni propositi ci metta.

Per una strana coincidenza, dopo aver esordito a Cannes il Maggio scorso, c’è un altro film al New York Film Festival di quest’anno in cui si parla di cargo al largo nell’oceano, di un incidente in mare e di globalizzazione, All Is Lost, diretto da J. C. Chandor, con Robert Redford nella parte del naufrago. È un film in cui non si dice praticamente una parola, con un personaggio solo i gesti che fa per sopravvivere in mezzo al mare. È anche un film costato una frazione di Captain Phillips (e qui viene in mente, la scialuppa di salvataggio contro le corazzate e la portaerei…) ma che, sullo stesso soggetto, sembra stranamente più rilevante.