Noto in Italia già dal 2000, quando lo pubblicava Piemme, il sudafricano Deon Meyer è oggi uno scrittore cinquantasettenne che usa l’afrikaans (ma a noi arriva attraverso la mediazione dell’inglese), ha un passato di giornalista ed esperto informatico, ama ugualmente Mozart e le motociclette Bmw (una di queste è il deus ex machina di Codice: cacciatore, accattivante romanzo uscito in Italia nel 2006). Attualmente, è l’autore sudafricano di thriller più tradotto al mondo. L’ultimo suo titolo Cobra (trad. it. di Nello Giugliano, edizioni e/o, pp. 395, euro 16), aggiunge un nuovo capitolo alle investigazioni di Benny Griessel, l’ispettore alcolista della Omicidi di Cape Town al centro di altri quattro romanzi, tre dei quali (Safari di sangue, Tredici ore, Sette giorni) pubblicati da e/o.

In Cobra, come in molte delle storie tipiche del genere letterario in cui si inscrive tutta la sua narrativa, Meyer intreccia due vicende parallele che si alternano, anche sulla breve misura di poche frasi, con il ritmo serrato della lotta contro il tempo. Da un lato, ci sono le investigazioni attorno a un delitto plurimo che vedono ancora una volta arrabattarsi Griessel e i suoi collaboratori vecchi e nuovi, sempre malpagati, caratterizzati da piccoli difetti o vere e proprie nevrosi, sebbene animati da un certo senso etico verso il loro mestiere e verso il paese. Dall’altro, c’è il ladruncolo Tyrone, che viene dal sobborgo meticcio di Mitchells Plain, dove è nato anche l’ispettore Vaughn Cupido – quasi dirimpettai da adolescenti, uno si è dato alla microcriminalità, l’altro alla giustizia – e che ruba per necessità (vuole far laureare la sorella) fino a quando non incappa in una storia più grande di lui.

Il filo conduttore che corre tra le due storie sta in una manciata di bossoli autenticati dall’incisione di un cobra, uno spietato gruppo di killer professionisti, e nel rapimento di un accademico inglese esperto di informatica ed economia, una memory card che tutti vogliono. L’intrigo internazionale di politica e alta finanza, che non si distingue certo per originalità, realismo e coerenza, prende avvio tra Inghilterra e Stati Uniti, con tanto di passaggio per l’immancabile Cia. Dalle banche occidentali, colluse nelle loro manovre sporche con i servizi segreti di mezzo globo, si affonda nei corrotti paesi africani, senza che ci venga negato un prevedibile appoggio ai terrorismi di matrice islamica. Ma il romanzo si concentra sul momento in cui la vicenda trova fertile terreno nell’opulenza del Sudafrica post-apartheid, rimpinguando le tasche della sua attuale classe politica sino ad arrivare, sembra, allo stesso innominato presidente.

Cosa può fare un poliziotto locale alle prese con l’ossessione dell’alcol e lo spettro dell’andropausa, coadiuvato da una squadra di fidati e volenterosi «falchi», contro un ingranaggio gigantesco che contempla spietati assassini disposti a tutto purché il sistema non salti e la verità non venga a galla? Potrebbe infatti accadere, se solo un file zippato finisse nelle mani dei giornalisti, entità astratta ma indicata come unico temibile avversario della corrotta politica planetaria.

Thriller e noir, con virate in un futuro cyberpunk – come avviene nelle opere di Lauren Beukes – sono ormai un genere ampiamente battuto in Sudafrica. D’altronde, le statistiche sulla criminalità hanno sempre offerto molto materiale, mantenendosi più o meno costanti tra il tempo in cui la violenza del regime era pane quotidiano e quando, nel dopo apartheid, questa ha cominciato a venire rigurgitata come risposta diffusa davanti alla forbice sempre più ampia che divide la popolazione, non più su base razziale ma su «ecumenici» criteri economici.

Persino una celebre opera prima come Young Blood (2010) del giovanissimo Sifizo Mzobe viene oggi rubricata come crime fiction, laddove in passato avrebbe attirato maggior attenzione per il suo prosaico impianto di critica sociale. Tuttavia, e nonostante le molte lodi che Deon Meyer si è guadagnato, non si può non notare una certa omologazione nella sua scrittura, un tempo più propensa a integrare trame avventurose nella complessità dello scenario culturale nazionale; e anche la ricchezza della tradizione letteraria sudafricana, soprattutto quella di matrice afrikaner, veniva messa in relazione con il rapporto che intratteneva con un paesaggio straordinario, reso attingendo a una vena struggente e malinconica.

Oggi, invece, Deon Meyer sembra voler fare riferimento prevalentemente a un modello di thriller globale, al quale si uniformano le sue trame e i personaggi (molti dei suoi romanzi sono già opzionati per sceneggiature per piccolo o grande schermo). La specificità sudafricana sopravvive nei cliché, nella mescolanza linguistica tra inglese e afrikaans, la cui resa italiana – nonostante la buona volontà del traduttore – produce un effetto al tempo stesso straniante e troppo inautentico. E anche le sconsolate nonché estemporanee considerazioni politiche rimandano alla disillusione dei figli della generazione che lottò con passione contro l’apartheid per conquistare un paese ancora incapace di dirsi privo di discriminazioni.

 

Sul Manifesto del 6 luglio è uscita un’intervista all’autore: http://ilmanifesto.it/la-storia-in-giallo-del-sudafrica/