Austero, carismatico, insieme solenne e confidenziale. Così Ettore Spalletti appare nel documentario in cui la regista Alessandra Galletta ha raccolto tra il 2016 e il 2018 confidenze e pensieri dell’artista, presentato in una mostra appena inaugurata, Ombre d’azur, transparence, al Nouveau Musée National de Monaco – Villa Paloma (a cura di Cristiano Raimondi, fino al 3 novembre). Il racconto – sostenuto dalle testimonianze di critici, amici, galleristi – ha come epicentro lo studio di Spalletti a Cappelle sul Tavo, in Abruzzo, il luogo dove è nato e ha sempre vissuto. È qui, da un cinquantennio, che prendono forma i risultati di una ricerca rigorosa e idiosincratica: «sculture», volumi e superfici di colori chiari, uniformi – azzurro, rosa, oro, bianco –, declinati in una limitata gamma di volumi di originale morfologia, da cui irradia un senso di distacco, di compostezza, di energia delicata – colonne dai profili mistilinei, tronchi di cono («anfore»), vasi sferoidali («coppe»), catini semicilindrici («bacili»), piani rettangolari («quadri») dai bordi tagliati di sbieco o sporgenti dal muro.
Luci senza ombre
Le sale di Villa Paloma a Montecarlo, un piccolo edificio Belle Époque sovrastato dai nuovi grattacieli che saturano lo skyline monegasco, presentano una calibrata selezione di lavori recenti di Spalletti, immersi in una illuminazione intensa e priva di ombre realizzata per l’occasione. L’effetto è quello di una sospensione, di una volontà di schermatura, di isolamento dal moto caotico del mondo esterno, condizione indispensabile a raggiungere quella forma di acuimento della sensibilità e di simultaneo raccoglimento meditativo privilegiata dall’artista. Nella mostra, elementi a parete e lavori tridimensionali alludono tutti a questa continua ricerca di armonizzazione tra sensazione, idea, memoria. Colori e volumi possono dunque valere simultaneamente come allusioni atmosferiche (una certa luce in un dato momento e luogo), come rinvii occulti a una tradizione artistica (cieli o incarnati «dipinti»), come sottili esercizi di grammatica formale e concettuale (l’ambivalenza e la complementarità pieno/vuoto, piano/a rilievo). In una sala dominata da due grandi «librerie», popolate di volumi uniformemente colorati in due toni di azzurro, su una bassa «colonna» un mazzo di rose bianche è sistemato in un vaso accanto al quale Spalletti si è fatto fotografare anche nell’affiche della mostra. Metafora forse – la bellezza passeggera, il profumo evanescente dei fiori – del possibile, fuggevole istante di illuminazione, del terrestre satori offerto dall’arte.
Questa cifra espressiva così particolare pone Spalletti in una regione di cui è praticamente il solo abitante, distante anche dalle tendenze del tardo Novecento cui il suo lavoro è stato spesso accostato, il minimalismo e l’astrazione color field, anzitutto, con le quali condivide superficialmente una stessa volontà di riduzione di pittura e scultura al puro dato fenomenologico – il volume, la superficie monocroma collocata nell’ambiente – ma che in realtà, come non hanno mancato di sottolineare i suoi interpreti, muove da una visione del tutto differente, centrata sulla percezione di una consonanza lirica e sensuale al tempo stesso, di una elusiva ancorché vibrante capacità di immedesimazione in un momento atmosferico e psichico.
«Quando dipingo – confidava Spalletti a Carlos Basualdo nel 2014 – inizio con il colore che in quel momento sento di voler raccontare. Dopo, è il colore stesso a suggerirmi il successivo, come se dipingessi un’unica grande tavola. I colori si muovono toccando l’azzurro, il cobalto, l’oltremare, il rosato, il grigio, il rosso porpora». In termini concreti: Spalletti mescola gesso e colla, stende l’impasto su un supporto di legno, applica il pigmento colorato sul composto fresco, levigando quindi la superficie asciutta con carta abrasiva e soprapponendo gli strati di colore fino a ottenere la tonalità desiderata. Il risultato è una sostanza compatta, liscia, omogenea ancorché polverosa, il cui tono uniforme «fa corpo» con il volume. Se all’origine c’è dunque un processo tattile più che pittorico – in un’altra intervista Spalletti dichiarava che la superficie delle sue opere possiede un «colore che non esiste» ma che «viene fuori attraverso la polvere» – il risultato visivo è piuttosto, come ha scritto Tommaso Trini, uno sfumato aptico, un effetto in cui vista e tatto, colore e forma, si trovano congiunti in una sintesi inedita. Questa ossimorica profondità superficiale riannoda, oltre la stessa radice minimalista, un legame con la fondamentale esperienza di Brâncusi, la cui scultura recideva il vincolo classico e millenario, organico e antropomorfico, tra pelle e corpo, tra causa profonda – fisica, emozionale, morale – e manifestazione cutanea.
Colore e materia appaiono dunque, nell’opera di Spalletti, connessi lungo un asse non previsto né dalle prescrizioni dell’astrazione modernista né dai ripetuti tentativi della tarda modernità di superare le categorie tradizionali di pittura e scultura a favore di un «campo espanso», in cui l’esperienza estetica risulta inseparabile dalla sua situazione, dal suo spaziotempo specifico. Piuttosto, per l’artista italiano si tratta di individuare uno spazio transizionale tra superficie, volume e ambiente, in cui si conservi in qualche modo all’esprit de finesse, a una forma di intuizione prelogica e preconscia, il diritto a reclamare cittadinanza nel mondo contemporaneo.
Azzurro raccoglimento
Una scommessa, questa, sulla possibilità di salvaguardare la densità di affetti che intesse l’esistenza umana e la consapevolezza dei suoi limiti culturali e biologici ben percepibile in quella che è probabilmente una delle opere più intese e riuscite di Spalletti, il progetto dell’obitorio dell’ospedale Raymond Poincaré di Garches, la Salle des Départs, realizzata nel 1996 come luogo di raccoglimento immerso in una uniforme colorazione azzurra.
Con il suo richiamare costantemente la qualità emozionale del rapporto con materie, forme, colori, l’opera di Spalletti si colloca così in uno spazio fortemente simbolico e al tempo stesso in un ambito di consapevole riflessione sulla natura di forme e percezioni. È in questo annodarsi che va riconosciuta la sua resistente vitalità