Sergei Loznitsa ha presentato alla scorsa edizione della Mostra d’Arte Cinematografica di Venezia, nel Fuori Concorso, il suo nuovo film State Funeral. Seguitando in una delle tre principali linee che costituiscono il suo lavoro di cineasta – il documentario d’osservazione, il film a soggetto e il documentario d’archivio al quale filone s’iscrive questo nuovo cimento – Loznitsa monta un poema funebre che rivela al suo interno – dentro la trama sottile e discreta di una complessa struttura dalle forme controllate e ripetitive costruite secondo la consueta logica matematico-musicale (prima di diventare regista Loznitsa è stato un matematico impegnato nella cibernetica e nella teoria dei sistemi) qui applicata al rito oltre che alla rappresentazione propagandistica – un ipnotico diorama in movimento sull’Unione Sovietica degli anni Cinquanta, un saggio storico puntuale e inesorabile, un pamphlet politico affilato e sagace, una macchina percettiva che getta lo spettatore in un tempo illusorio e puramente immaginario nel quale il passato e il presente si toccano e si sovrappongono, lanciando lampi a illuminare un futuro prossimo e possibile.

Per indagare la complessità discreta di uno dei registi più rigorosi e prolifici del panorama contemporaneo il Festival dei Popoli ha scelto, in occasione della sua prossima sessantesima edizione (dal 2 al 9 novembre, a Firenze), di dedicare un omaggio monografico a Sergei Loznitsa, curato da chi scrive.

Ognuno dei suoi film è una sorta di complessa macchina che monta insieme dispositivi narrativi e congegni fondati sulla percezione del tempo. Per i suoi film d’archivio questo sembra essere ancora più vero. Come e quando nasce l’idea all’origine di «State Funeral»?
Dopo il film che ho fatto l’anno scorso e che ho presentato anch’esso qui a Venezia, The Trial, volevo seguitare sulla stessa linea di lavoro. Avevo già raccolto materiali su diversi funerali di Stato degli anni Trenta, e stavo progettando di farne un film. L’idea era di mostrare tutti i leader sovietici uccisi da Stalin da vivi e poi, dopo una didascalia, mostrarne i funerali dove Stalin e tutti gli «amici»tributavano l’estremo commiato. Un giorno ho incontrato un’archivista dell’Archivio di Stato di Mosca che mi ha detto: «Sergei ho circa seicento scatole con i materiali girati durante il funerale di Stalin» e io ho detto: «Wow! Posso darci un’occhiata?». Dopo una prima visione ho cambiato i miei progetti e ho deciso di fare un altro, questo. C’erano 30-35 ore di materiale bellissimo, girato da molti operatori diversi, in molti luoghi diversi, non solo in territorio sovietico, in Cina, in Nord Corea, in Iran per esempio. La cosa interessante è che questi materiali furono girati perché c’era il progetto di fare un film sulle celebrazioni per la morte di Stalin. Il film in effetti è stato poi finito, si chiama The Great Farewell ed è stato diretto da quattro diversi registi di fama – Sergei Gerasimov, Il’ia Kopalin, Grigorii Aleksandrov e Mikhail Chiaureli – perché vista la delicatezza dell’impresa si decise di dividere una responsabilità così enorme. Fu proiettato, dopo essere stato terminato, una, forse due volte, dopo di che misero subito al bando sia il film che il tutto il materiale girato per realizzarlo. Perché? Questa è una domanda interessante. Posso solo provare a immaginarlo, ma è la ragione per cui questo materiale ha aspettato fino alla Perestroika per essere recuperato e reso di nuovo disponibile: fu bandito perché già alla morte di Stalin erano iniziate le lotte interne al partito rispetto alla condanna del suo operato e all’ufficiale riconoscimento delle sue responsabilità. Beria – che già aveva idea di porre fine al sistema staliniano e di aprire l’Unione Sovietica all’Occidente – morì in circostanze misteriose pochi mesi dopo Stalin. Le riprese del film però erano iniziate e non furono interrotte. Sono rimasto molto stupito che nessuno prima di me abbia messo mano a questi materiali, che sono rimasti liberamente accessibili da chiunque per molti anni prima che ci arrivassi io.

Il montaggio è sempre stato uno dei momenti cruciali per il suo modo di fare cinema. E non solo con riferimento alle immagini ma anche e in egual misura rispetto alla colonna sonora. La cosa diventa ancora più evidente in un film come questo.
Fino al 2010, quando ho fatto il mio primo film a soggetto, ho montato tutto da solo. Poi ho dovuto iniziare a lavorare insieme a un montatore perché c’era molto lavoro tecnico da fare e mi serviva assistenza. È da allora che ho cominciato a lavorare con il montatore che ancora oggi mi affianca, Danelius Kokanauskis. Per State Funeral è stato un lavoro molto duro per l’enorme sovrabbondanza del materiale che doveva essere prima classificato. Prima ho dovuto sezionare le singole inquadrature, descrivendo ognuna e riponendole in diverse cartelle. Alla fine c’erano 18.000 pezzi. Abbiamo lavorato in parallelo dividendoci il lavoro. Nel film ci sono episodi che ho montato io, episodi montati da Danielius, altri montati da me e rifiniti da lui, e altri ancora montati da lui solo. Ovviamente sono io a costruire la struttura e preordinare il modo in cui il racconto si sviluppa. In parallelo l’ingegnere del suono montava senza nemmeno vedere le immagini. C’è uno scherzo a questo proposito di Danielius su Vladimir (Golovnitsky n.d.r.): dice che Vladimir ormai ha raggiunto un nuovo livello, monta il suono senza le immagini. Abbiamo lavorato tutti e tre insieme per la maggior parte del tempo, stando nello stesso posto, nella grande casa che Vladimir ha costruito vicino Vilnius: lui ha organizzato al piano di sopra il suo studio e io andavo su e giù tra la sua stanza e quella del montatore che era di sotto.
Con Vladimir lavoriamo insieme dal 2003. Sedici anni e venti film, ci conosciamo molto bene ormai: lui capisce cosa voglio ogni volta e io so bene cosa sa fare e cosa posso aspettarmi da lui. È stato lui a suggerire la canzone alla fine del film, la ninnananna. Io ho subito montato tutto l’episodio come un video musicale centrato sui fiori degli addobbi funebri. Ho montato da solo. Il montatore aveva un’opinione diversa, c’è stata una discussione: lui è dell’idea che sembri una ninnananna a Stalin, ma ovviamente non lo è. In questi casi sento la differenza culturale: Danielius è lituano, la Lituania è stato un paese occupato e lui ha un rapporto con questa tragedia (l’occupazione sovietica n.d.r.) come ce l’ho anche io, ma Russia e Ucraina sono strade che s’incrociano. Ho capito che vedevo quest’argomento da un punto di vista diverso e questo ogni tanto faceva sorgere discussioni. Danielius qualche volta suggerisce anche soluzioni sul sonoro.

Forse per la prima volta, la colonna sonora non è la parte del film più nascostamente elaborata. So che avete lavorato molto anche sulla qualità delle immagini.
Volevo avere un’immagine pulita, perfetta, non segnata dal tempo. Abbiamo pulito tutte le immagini: non ci sono graffi, non ci sono macchie. Poi le abbiamo stabilizzate, tanto che ora sembra materiale girato di recente, con le tecnologie moderne. Penso sia un altro modo di vedere il materiale di archivio, di accettarlo, di usarlo: renderlo più vicino a noi, oggi. Grazie a Dio gli archivi sonori erano tutti sincronizzati: durante la cerimonia ci sono questi tre leader sovietici che tengono tre discorsi, questi discorsi furono accuratamente registrati dalla radio, per intero. Il resto del sonoro è quasi tutto creato in studio.
C’è stato poi un gran lavoro sul colour grading, le immagini sono state girate ad un alto livello tecnico e formale, ma erano immagini a colori e in bianco e nero. Ho deciso di lasciarle così com’erano, senza modificarne l’aspetto cromatico per non aggiungere allusioni simboliche. Il colore aggiunge qualcosa del sentimento del tempo. C’erano diversi tipi di pellicola: Kodak, Agfa, e qualcos’altro, forse russo, non ricordo. È stato difficile correggere il colore tra pezzi così diversi, ma è stato molto interessante per me, non avevo mai visto l’Unione. Sovietica a colori in quegli anni, l’aspetto degli abiti, dei gesti delle persone. Se li osservi a lungo ti senti quasi come se stessi vivendo insieme a loro, in quel passato lontano.

A proposito del colore. È la prima volta che vediamo comparire il colore in uno dei suoi film d’archivio.
Sapevo che una parte del materiale era a colori, abbiamo scelto di montare guardando tutto il materiale in bianco e nero. Per questo solo alla fine ci siamo resi conto del mosaico di bianco e nero e colore composto dalla sequenze delle diverse inquadrature. Dal momento che la prima stesura del montaggio era già fatta, ho deciso di non toccare niente e di lasciare tutto com’era. L’alternativa sarebbe stata portare tutto al bianco e nero, ma penso che in quel caso il film avrebbe perso parecchio. Se invece avessi lavorato al montaggio guardando il materiale nella versione originale questo avrebbe sicuramente influenzato le mie scelte, probabilmente avrei usato qualche forma di simbolismo, mentre ora nel film non c’è alcuna traccia di simbolismi, ci sono solo i fatti.
Credo che questo film diventerà il primo di un corpo di film che descriverà questo periodo sul quale resto molto curioso.

Parla di film fatti da lei?

Sì, ho intenzione di continuare a fare film su questa periodo storico, pur sapendo quanto sia impossibile descrivere con esattezza qualsiasi fenomeno, qualsiasi evento. Prima di tutto questo è un evento senza fine, non ha un compimento. L’unico modo per poterlo descrivere è trovare una metafora che lascerà comunque uno spazio all’interpretazione. Di qui ci muoviamo dal linguaggio meramente descrittivo a un metalinguaggio, il linguaggio metaforico che lascia sempre uno spazio all’ignoto. Di certo per descrivere alcune situazioni la metafora resta lo strumento più preciso. Ed è questo a darmi lo stimolo per fare film. Ero molto interessato al momento cruciale quando è avvenuto il cambiamento. Sono assolutamente convinto, come succede nel film di Buñuel, L’angelo sterminatore, che se torniamo indietro esattamente al punto in cui le cose sono andate storte e ricreiamo tutti i passi possibili, possiamo trovare una soluzione e una cura. Quel punto è molto indietro nel tempo, almeno un centinaio di anni fa. Allora, nei miei piani, voglio dare il mio tributo alla città di Kiev, fare un film su Babi Yar e poi voglio fare un film sugli anni Trenta, sull’era Stalin. Già ho in mente l’argomento, parlo di un film di finzione. Poi voglio tornare indietro alla guerra civile, la guerra del ’17-’18 in Russia.

Finzione o documentario?

Finzione. Voglio anche fare un documentario sull’inizio della seconda guerra mondiale, l’inizio dell’intervento tedesco in territorio sovietico. Sto già lavorando sugli archivi, vagliando i materiali, e posso già dire che ci sono molte cose che non sappiamo a proposito di queste vicende.

Mi sembra molto interessante una cosa che ha detto durante la conferenza stampa di presentazione del film a Venezia a proposito della responsabilità del «popolo» quando si parla di regimi. Mi piacerebbe sentirne parlare un po’ meglio visto che non è un tema presente solo in questo film.

Sì, è un tema generale. Diciamo sempre che chi fa propaganda è colpevole, ma non parliamo mai della gente che ingurgita la propaganda e l’accetta e la segue, e delle responsabilità di quest’altra parte in causa, la gente. Sono responsabili di quello che decidono di credere, si comportano come le pecore. La scena è questa: un pastore e le sue pecore. Le pecore non sono mai responsabili. Oggi però viviamo in un paesaggio del tutto diverso, un’immagine bucolica tutta diversa: tutti sono pastori, questo è quel che Gesù ha insegnato alla gente, «tu sei pastore di te stesso». Ma nessuno vuole ascoltare questo insegnamento perché comporterebbe dover caricarsi della responsabilità delle proprie scelte. Dunque abbiamo una situazione molto interessante in cui tutti sono in grado di comprendere, ma ugualmente scelgono il modello arcaico. Penso dovrebbe essere scritto, detto in faccia: sei responsabile per tutto quello che succede. Il popolo sovietico è stato responsabile per l’operato di Stalin, sono stati responsabili per ogni singola guerra condotta dall’Unione Sovietica, e oggi il popolo russo è responsabile per la guerra con l’Ucraina, perché in qualche modo condividono e sostengono la decisione che l’ha provocata, la sostengono pagando le tasse.

Quanto crede – pensando agli aspetti anche più impercettibili del modo in cui sono girate – che gli operatori fossero d’accordo con il regime e la sua macchina di propaganda alla quale stavano prestando il loro lavoro? Dentro le immagini ha mai notato segni discreti di un dissenso?

Molto difficile a dirsi. La propaganda era un’arma perfettamente oliata. Quelli che resistevano non duravano a lungo in quel sistema. È più che probabile che almeno alcuni di loro avessero dei dubbi, ma sono certo che nessuno di loro si è mai concesso di esprimerli in pubblico, apertamente.
La maggior parte di quelle immagini ha un aspetto ridicolo, grottesco per l’occhio contemporaneo. Per esempio, l’ultima scena del film, con il gigantesco ritratto di Stalin sulla gru. A un certo punto succede un incidente: alcune persone sono quasi colpite e decapitate e devono piegarsi per evitare il colpo. Questo è l’esempio tipico di una ripresa che ha un valore simbolico, satirico: Stalin che – anche attraverso la sua immagine – attenta alla vita dei suoi concittadini. Ci sono due riprese di questa scena: nella seconda tutto fila liscio, la seconda però avrebbero dovuto distruggerla e invece non l’hanno fatto. Ho notato anche qualcosa che riguarda i discorsi: il loro particolare stile che implica un sacco di pathos. E più guardavo questi materiali più il pathos cresceva. Mi fa pensare a Gargantua e Pantagruel di Rabelais, perché il pathos diventa sproporzionato, gigantesco. Grazie al montaggio e all’uso del sonoro avrei potuto costruire l’intero film secondo il registro del grottesco, ma ho pensato avrebbe appiattito tutto, sarebbe diventato troppo insulso. Avremmo riso insieme, sarebbe stato più personale, la mia posizione sarebbe stata più chiara ma le cose che avremmo perso…Non combatto lo stile sovietico, lo seguo, il mio scopo è un altro. Gli elementi grotteschi li ho lasciati in secondo piano, ho cercato di mantenere sempre un equilibrio. La forma è quella di un film di propaganda sovietica: le persone sono sempre riprese dal basso, come statue, e le loro espressioni sono sempre di eroismo o di lamento e di estrema tristezza. Ho deciso di non mettere nel film gente che piangeva: quest’espressione emotiva danneggia e rovina lo stile sovietico perché quel genere di emozioni erano quasi contro…non erano conformi in quel mondo: se uno moriva doveva farlo mantenendo un’espressione solenne sul volto.

Era considerato un comportamento non decoroso?
Sì, non appropriato. Piangere non era appropriato, ci si aspettava che conservassi un’espressione composta del volto. L’unica emozione che eri autorizzato a provare era la gioia, un unico tipo: quella che viene dalla soddisfazione di vivere una vita meravigliosa in una meravigliosa nazione, di fronte all’orizzonte di un meraviglioso futuro.
Mi viene in mente Vertov, il suo film Ninna nanna, che usa musiche in tonalità maggiore. Nel mio film la ninna nanna alla fine è invece in tonalità minore. L’emozione è totalmente diversa. Lavorando a State Funeral ho pensato anche al film di Vertov: il mio film è quasi una risposta al suo a distanza di molti anni, una lettera, una cartolina a Vertov. Lui è un gigante, ma io ho con Vertov questo genere di scambio a distanza.

Quanto considera questo film come la conclusione, il compimento di qualcosa, l’ultimo capitolo, la sinfonia conclusiva?

Tutti i miei film sono connessi gli uni con gli altri in una sorta di tela. Questo film non sono sicuro sarebbe al centro, ma devo ancora pensarci.
Sono però sicuro che questo è uno di quei film grazie ai quali cresco, aggiungo un pezzo in più a me stesso. Non posso dire se sia il migliore – il mio film migliore è sempre nel futuro – ma di certo è una specie di collezione di idee che concludono, portano a compimento i film precedenti.