Al Lido arrivano i documentaristi, e qualcuno spera che potrebbero essere loro , gli autori di un genere infine rivalutato qui con ampio ritardo sugli altri grandi festival, a risollevare le sorti dI un edizione abbastanza opaca, che non ha sinora regalato film di forti emozioni o ampio consenso. Il primo a passare, fuori concorso, è Alex Gibney con The Armstrong Lie, l’atteso lavoro che prende il titolo da un celebre titolo de L’Equipe su Lance Armstrong. Il ritratto che Gibney fa dell’ex campione è l’ultimo di una ormai lunga galleria di antieroi con cui il regista ha scandagliato il lato oscuro d’America attraverso le sue istituzioni più corrotte (l’esercito in Iraq, Enron, Wall Street, la chiesa omertosa sui pedofili) e i suoi idoli caduti, il governatore Eliot Spitzer, il lobbista Jack Abramof e per ultimo anche Julian Assange.

Il ciclista sette volte vincitore del Tour (i suoi titoli quest’anno sono stati revocati dalla federazione e dal comitato olimpico) rientra a pieno titolo nei personaggi ambigui e colpevoli che affascinano Gibney. Il progetto era partito nel 2009 come film che avrebbe dovuto documentare il tentativo di ritorno al tour 4 anni dopo il ritiro, ma lo scandalo scoppiato poco dopo aveva spinto il regista ad accantonarlo per riprenderlo in mano solo in seguito alla confessione dello scorso gennaio in cui Armstrong ha infine ammesso la verità di tutte le accuse che aveva per anni categoricamente respinto. Il ritorno al tour costituisce il filo conduttore su cui Gibney innesta in flashback il riassunto di una irresistibile ascesa, la sfolgorante carriera atletica perennemente adombrata dai dubbi e infine la catastrofica caduta. Più che nella cronaca della rovinosa caduta di un idolo la forza del film deriva però dal personaggio fondamentalmente enigmatico. Il successo di Armstrong era stato fondato sin dall’inizio sulla «narrativa» della sconfitta del cancro e il ritorno irresistibile ai massimi livelli agonistici.

In quanto attento tutore della «fiction» annessa al suo personaggio Armstrong può essere considerato un grande innovatore dello sport moderno, abile quanto indisturbato da scrupoli, ma una figura che certo ha avuto bisogno della tacita connivenza di molti comprimari nell’ambiente. Gibney tratta, ma solo tangenzialmente il ruolo della federazione ciclistica e del suo presidente Hein Verbruggen che dal successo di Armstrong trassero visibilità senza precedenti e giganteschi profitti. Altro soggetto, praticamente co-protagonista dl film è il dr. Michele Ferrari in quanto genio scientifico responsabile della «ottimizzazione performativa» di Armstrong e dei suoi compagni della US Postal Service; una eccellenza tutta italiana, quella della scuola biomedica di Ferrara, cui il film dà pieno credito.

Alla fine il doc restituisce l’immagine di un atleta che ha importato nel ciclismo dopato la stessa metodica ricerca della vittoria con ogni mezzo che ha coltivato con ossessione sin da ragazzo sulle strade del Texas dove è cresciuto con la madre, senza mai conoscere il padre. Il personaggio è affascinante, per le sue razionalizzazioni, il suo irretimento progressivo in una ragnatela impenetrabile di menzogne e per la sensazione che dà di essere tuttora incapace di compiere il passo definitivo di ammettere anche a se stesso di aver barato.

Da The Armstrong Lie emerge infine un’universo morale assolutamente relativo: i sette tour «dell’ era» Armstrong rimasti senza vincitore sono testamento permanente al teorema articolato da Armstrong secondo cui lui si è limitato a seguire le regole non scritte del gioco semplicemente con un maggior livello di efficienza; un personaggio che rifiuta ancora di svelarsi del tutto e che soprattutto incarna l’imperante ipocrisia del business dello sport, di cui tutti i qualche modo siamo conniventi.