Non capita di frequente di leggere grandi libri, e capita di rado che grandi libri siano racchiusi nel giro di poche pagine. Quando tutto questo succede, allora ci si congeda dalla lettura con quel misto di meraviglia e di riconoscenza che è la fonte del nostro amore per la carta stampata. In questo prezioso Ritratto di Tocqueville (Edizioni della Normale, collana Variazioni, pp. 143, euro 10), dipinto tra il 1860-61 e il ’65 da Charles-Augustin Sainte-Beuve, quanti libri sono compresi, intessuti l’uno dentro l’altro? L’immagine dell’autore della Democrazia in America si intreccia all’autoritratto del suo severo critico, consapevole di dipingere, sotto un pretesto, anche «il profilo di se stesso». A loro volta, questi due distinti quadri si congiungono in una terza figura, duplice e contraddittoria: nell’immagine, cruciale per lo storico della critica letteraria, che ritrae la relazione tra il critico e il suo oggetto; e che – pregna, in questo caso, di echi psicologici e psicoanalitici – apre un gioco di specchi nel quale la curiosità e la malignità del critico, e un’invadenza al limite del voyeurismo (con buona ragione Giulia Oskian riprende nella sua limpida «Introduzione» i duri giudizi di Balzac e Nietzsche sulla risentita meschinità di Sainte-Beuve), operano al servizio dello studio biografico ma fanno al tempo stesso della «critica biografica» un testo esemplare di tutta una temperie storica, culturale e politica.

L’orgoglio dell’aristocratico

Quando torna a occuparsi di Tocqueville, Charles-Augustin Sainte-Beuve è all’apice di una incalzante carriera nelle maggiori istituzioni culturali francesi, quindi al culmine del potere culturale. Membro dell’Académie française, dopo una breve stagione trascorsa al Collège de France su nomina imperiale insegna letteratura francese – come dire la dottrina principe – all’École Normale. Di lì a poco andrà a occupare uno scranno nel Senato del Secondo Impero. Della Democrazia in America si è già interessato, lodandone a più riprese l’«eccellenza», negli anni della pubblicazione (1835-40), ma nel frattempo molta acqua è passata sotto i ponti. L’autore di quella straordinaria opera è morto (nell’aprile del ’59) poco dopo averne data alle stampe un’altra (L’Antico regime e la rivoluzione) da molti considerata una palinodia. E, come usa, la morte sta per consegnarlo a quella gloria che in vita gli è stata puntualmente negata. Prima che ciò avvenga, Sainte-Beuve prende in mano la penna – o, se si vuole, il pennello – per questo nuovo «ritratto». Come a voler prendere autorevolmente distanza e dai nuovi elogi che l’Académie si prepara a tributare, e da quelli lontani che egli stesso aveva tessuto in gioventù.
Ma, come si diceva, oltre che di Tocqueville (letto ancora con innegabile acume, ma ormai da Sainte-Beuve francamente avversato: considerato ondivago e contraddittorio, incline al dubbio e all’interrogazione sino a fraintendere il senso delle cose), queste pagine parlano del loro stesso autore e del suo controverso metodo critico. Emergono così, con grande nettezza, le motivazioni personali – oltre che politichedi un giudizio, non soltanto inevitabilmente soggettivo, ma anche dettato da predilezioni e idiosincrasie, e quindi talora riduttivo nei riguardi di un’opera e di una figura indiscutibilmente somme. Tocqueville appare al suo critico come irretito nella «religione» del progresso, abbagliato da un presunto destino che la storia a disegno della modernità gli sembra imporre nel momento in cui il suo mondo è costretto al tramonto. Ed è curioso che Sainte-Beuve lo attacchi proprio su questo piano – imputandogli una lettura del processo democratico come frutto paradossale dell’orgoglio aristocratico – nel momento stesso in cui, per contro, gli rimprovera un eccesso di cautela e d’incertezza. Mancando così di cogliere la grandezza di un pensiero aperto e non risolto proprio perché informato dalla consapevolezza della transizione epocale in atto.

Molte altre cose varrebbe la pena di notare riguardo a queste pagine, alle quali né il tempo né le motivazioni né la distanza della prospettiva tolgono freschezza. E questo vale anche, forse soprattutto, per il luogo nel quale con più chiarezza emerge la sproporzione tra i punti di vista che il rinnovato incontro tra Tocqueville e Sainte-Beuve pone a confronto: laddove quest’ultimo liquida con una battuta aspra, sprezzante, l’autore della Democrazia (ai suoi occhi ridottosi, dopo il febbraio del ’48, a un «teorico idealista confuso e attonito» e a un «uomo politico sfibrato») senza nemmeno lasciarsi sfiorare dal dubbio che – mentre lo sguardo di Tocqueville resta comunque quello di un grande analista del tempo storico, capace di ascoltarne il respiro per interrogarsi sul significato delle grandi trasformazioni – quella dei suoi anni d’oro, inaugurata dal colpo di Stato bonapartista, potesse invece essere soltanto una breve parentesi, destinata a chiudersi nel segno della tragedia e del grottesco.

Un nuovo modello di editoria

Pagine vivissime e per tanti versi ancora attuali. Il che, vale la pena di sottolinearlo, è altrettanto vero per tutti i volumi della nuova collezione edita dalla Scuola Normale di Pisa, nel quadro della quale vede ora la luce il libro del quale abbiamo qui sommariamente parlato. «Variazioni» è il nome della collana, a volere con ciò significare l’intenzione di proporre lavori che appartengono a differenti generi letterari: dal saggio di tipo classico all’intervista, da testi teatrali a recensioni che, per la loro importanza e la loro ampiezza, si configurano, a loro volta, come veri e propri contributi scientifici. Intrecciando questi due livelli – la varietà degli argomenti e la varietà dei generi in cui essi si iscrivono – al fine di presentare un nuovo modello di editoria, tanto originale quanto al passo del nuovo pubblico di lettori che si viene costituendo in questi anni.

Basti qui, per farsene una pur vaga idea, un semplice cenno ai volumi sin qui apparsi (tutti in questi primi mesi del 2013): l’opera teatrale di Mario Moretti Processo di Giordano Bruno (1970), ripreso ora con una premessa di Michele Ciliberto; la Vita di Pascal scritta dalla sorella Françoise Gilberte Périer, a cura di Domenico Bosco; il classico profilo gariniano di Leon Battista Alberti, con una introduzione dello stesso Ciliberto; il saggio di Roberto Gronda Filosofie della praxis, su Giulio Preti e John Dewey, e, infine, il Trattato sul governo di Firenze del Savonarola, con una premessa dello storico della filosofia medioevale Gian Carlo Garfagnini. Una felice difformità lega questa galleria e, al tempo stesso, una coraggiosa coerenza. Con l’evidente, dichiarata determinazione di coniugare l’originale e il classico, spendendo per questa impresa in controtendenza – contro i venti di crisi che si abbattono con forza sulla piccola editoria italiana, massime su quella di cultura – la virtù, anch’essa inattuale, della spregiudicatezza.