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Il tempo di lavoro nell’era delle stampanti 3D

Il tempo di lavoro nell’era delle stampanti 3D

Diritti Lottare contro la saturazione del tempo di lavoro e rivendicare una radicale riduzione dell’orario lavorativo per inceppare la valorizzazione del capitale

Pubblicato quasi 9 anni faEdizione del 6 novembre 2015

Ci è sembrata molto interessante la proposta di Valentino Parlato, in uno dei primi interventi nel dibattito aperto dal manifesto (“C’è vita a sinistra”), di iniziare, nella ricerca di una nuova identità della sinistra, dalla riduzione del tempo di lavoro. Del resto, agli albori della civiltà industriale, fu proprio la rivendicazione di orari di lavoro più umani la molla per la nascita e l’affermazione dei movimenti socialisti in Europa. Le otto ore per ridurre la fatica (“se otto ore vi sembran poche”), ma anche per organizzare diversamente la propria vita: eight hours’ labour, eight hours’ recreation, eight hours’ rest.

Siamo convinti che oggi, ancor più, sulla riappropriazione del tempo si gioca la prospettiva politica e democratica di un riequilibrio a favore di natura e lavoro nella contesa con il capitale.Noi veniamo entrambi da un’esperienza in cui la contrattazione sindacale risaliva all’economia e alla politica. Proviamo quindi a riproporre quel percorso allora praticato in migliaia di vertenze, aggiornandolo rispetto alle novità che sfuggono al conflitto odierno e di cui si impossessa un liberismo senza avversari, per avanzare così uno spezzone di proposta e di “vita a sinistra”.

Il tempo ha a che fare con la nostra identità e si può coniugare in diversi modi. Ne siamo coscienti a tal punto da poter dire di “essere fatti di tempo”. Ma non ne siamo completamente proprietari, se non in relazione alla società cui apparteniamo e al ruolo che vi svolgiamo. Sta di fatto che, progressivamente – e in particolare negli ultimi quarant’anni – abbiamo assistito all’accentuarsi della divaricazione tra l’espropriazione del tempo per alcuni e il suo possesso per altri. La precarietà del lavoro, eletta a norma con l’abolizione dell’articolo 18 e il Jobs Act, corrisponde a un passaggio di proprietà in mano di pochi del tempo presente destinabile da ognuno al diritto di organizzare il proprio futuro. Si tratta di un fenomeno in compimento a livello globale, che coinvolge ovunque i nuovi proprietari del tempo in una incessante strategia di colonizzazione.

Energia e scorrere del tempo fisico, sono coniugati indissolubilmente non solo nel mondo della produzione e delle merci, ma anche in quello della nostra esperienza vitale – dato che il loro prodotto ha le dimensioni fisiche di una azione. Di conseguenza, lo svolgimento di una mansione lavorativa o un processo produttivo possono essere ottenuti in molti modi: ad esempio impiegando molto tempo e spendendo poca energia oppure impiegando poco tempo e spendendo molta energia.

Fin dagli albori della civiltà delle macchine il capitalista, per ridurre il costo del tempo di lavoro, si è attivato per impiegare quantità sempre crescenti di energia a prezzi inferiori. Questa constatazione dovrebbe avere per corollario una liberazione di tempo di lavoro e una riconsegna agli umani di tempo proprio. Oggi, al contrario, il sistema d’impresa punta soprattutto a saturare con il massimo di operazioni il tempo retribuito; a non pagare il tempo di attenzione richiesto tra un’operazione e l’altra e a allungare di fatto la prestazione in base a una reperibilità incessante. Addirittura può riservarsi il potere, riconosciuto per legge dopo il Job Act, di annullare o sospendere a comando il tempo di lavoro dei suoi salariati. La strategia dell’impresa si limita a massimizzare tempo ed energia sotto il profilo economico a lei utile, ma non restituisce né al lavoro né alla natura l’accumulo del loro sfruttamento.

Tuttavia, il mutare del sistema di produzione, delle tecnologie e dei rapporti di classe ha rivoluzionato il tempo soggettivo dei salariati, creando le condizioni di un irrazionale eccesso di capacità trasformativa da parte del lavoro dipendente e accelerando così il degrado (entropia) del mondo naturale (energia e materie prime) e quella crisi da sovrapproduzione che è una delle cause principali della crisi attuale.

Sono in corso due grandi trasformazioni che riguardano da vicino l’organizzazione dei sistemi d’impresa e l’organizzazione del lavoro: in primo luogo la diffusione di sistemi di intelligenza artificiale applicati alla robotica e, in secondo luogo, la conferma delle possibilità delle nanotecnologie, che permettono un grande sviluppo di “assemblatori” programmati – le attuali stampanti 3D – che promettono evoluzioni fino ad un decennio fa impensabili. Un recente rapporto, realizzato da Fondazione “Nord Est” e “Prometeia”, ha stimato che già oggi un terzo delle aziende del made in Italy si avvale di robotica e stampa 3D.

La manifattura futura potrebbe comprimere a tal punto lo spazio e il tempo della fabbrica, da portarlo a dimensioni accessibili più agli algoritmi e alle operazioni degli elaboratori pre-programmati (che viaggiano alla velocità della luce) che all’intervento dall’esterno di qualsiasi antagonista che agisca in autonomia. Anche la manifattura, quindi, sta dirigendosi verso la dimensione astratta, iperveloce e di difficile controllo in cui si è già collocata a vantaggio di pochi la finanza.

A questo punto c’è tuttavia da chiedersi se sia socialmente e economicamente compatibile una elevata sostituzione del lavoro con intelligenza artificiale, macchine autoreplicanti e robot. Lo spostamento verso la progettazione e gli automatismi, lo sviluppo della robotica e dei sistemi esperti che dilagano anche verso professioni intellettuali (già oggi) sono tutti risparmiatori di forza lavoro. E mentre per il vecchio paradigma l’innovazione produceva disoccupazione compensata da nuovi domini produttivi, c’è da chiedersi se questo sarà vero in futuro.

Ecco, dunque, che lottare contro la saturazione artificiale del tempo di lavoro e rivendicare una radicale riduzione dell’orario di lavoro diventa un’occasione in grado di inceppare i meccanismi di valorizzazione del capitale, e porta con sé la necessità di pensare alla cosiddetta alternativa di sistema. Un diverso modello di sviluppo sostenibile dal punto di vista sociale ed ecologico, che rimodelli le nostre vite, il modo in cui ci relazioniamo con gli altri e con l’ambiente che ci circonda.

Che ripensi una crescita che non potrà che essere qualitativa, provando ad innovare con l’attenzione alla qualità di ciò che si produce, alla riproducibilità delle risorse e all’ambiente: tutti fattori che costituiscono, altrimenti, i limiti di uno sviluppo solo quantitativo. Dell’incoerenza di un processo di massimizzazione della velocità in funzione della massimizzazione del profitto discute il papa nella sua Enciclica. Perché non farne terreno di una seria alternativa di sinistra al catastrofico modello di sviluppo attuale?

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