In questo aprile in cui i teatri si avviano ad armare chiusure anticipate di stagione, afflitti da difficoltà d’ogni tipo, ben tre spettacoli firmati da Maurizio Scaparro sono in scena a Roma. Ha iniziato La coscienza di Zeno, nella riduzione di Italo Svevo operata da Tullio Kezich, e proprio i questi giorni sono in scena Viviani varietà all’Argentina e La governante di Brancati al Quirino. Per un artista che ha sempre tenuto Roma al centro dei propri interessi, pur guardando lontano, è un bel risultato. Non è solo un caso fortunato: dietro c’è la curiosità e l’attenzione del regista, da sempre, a certi filoni della cultura italiana; e anche l’incarico che lo lega ora alla Pergola di Firenze, fra gli spazi teatrali più nobili e belli in Italia, divenuta fondazione comunale dopo la chiusura dell’Ente teatrale italiano che ne era proprietario e gestore.

Del resto Scaparro, giovanotto neo ottantenne, ha una storia lunga nel teatro italiano ed europeo: direttore di moltissime manifestazioni e iniziative, è regista da circa 50 anni. Anche se prima aveva fatto il critico teatrale…
Solo per due anni, prima mi occupavo di macchine da scrivere.

Vuoi dire legato alla esperienza Olivetti?

No, lavoravo alla Remington.

Però ora, che tanto ci si lamenta, o ci si rallegra, del declino della regia, hai questa combinazione davvero fortunata di avere in un pugno di settimane 3 tuoi spettacoli in scena a Roma.

E un quarto a Parigi, perché appena si conclude questa esperienza romana, dopo tre giorni andrà in scena nella capitale francese Ultima notte a Pittsburgh, lo spettacolo che ho dedicato a Eleonora Duse con Anna Maria Guarnieri.
Quattro addirittura. Nonostante sulle scene i venti di crisi soffino forte: ma tanto più viene da chiederti se sia una casualità o un programma ben studiato?
Assolutamente una casualità. Non ho responsabilità personale se a Roma si siano sommati tre spettacoli in contemporanea, o meglio uno di seguito all’altro. È una coincidenza, ma che dimostra che spettacoli diversi, realizzati lungo un lavoro di circa due anni, sono stati invitati da altri teatri che riescono ogni sera a riempire. Quanto al successo, devo dire, senza attribuirmi falsi meriti, che io ho sempre amato riflettere sul novecento italiano. La prima parte del secolo scorso è inevitabilmente legata alle grandi avanguardie italiane, prima tra tutte il futurismo, cui è strettissimamente legato Pirandello, checché se ne dica. Lui ha trasportato in scena alcune grandi idee del futurismo. E sulla scena ha preso corpo una Italia delle diversità. Dentro un breve periodo storico noi vediamo un Brancati siciliano, un Viviani meridionale e uno Svevo che è il Nord, quasi un’Europa, anzi una vera Mitteleuropa. A noi non resta che constatare questa Italia delle lingue, delle città. Una constatazione felicissima che oggi è necessario ribadire, perché se ancora oggi abbiamo la ricchezza delle lingue e delle diversità (anche se ci sono stati altri periodi felici, come gli anni 60 e 70 in cui è nato il nuovo teatro che ha generato presenze ancora oggi molto importanti, da Martone a Moscato), è molto importante spenderla oggi che ci confrontiamo con l’Europa delle lingue e delle diversità. Non mi riferisco ovviamente alla «Europa delle banche», ma a quella delle realtà vitali che tendono al confronto. Non dimentichiamo mai che noi questa Europa abbiamo contribuito a far nascere, perché siamo quelli della commedia dell’arte, primo linguaggio comune e unificante di paesi diversi. Quale conoscenza avremmo noi oggi del mito di Don Giovanni, se da Siviglia quel personaggio non fosse arrivato a Napoli, e poi di qui magari in Russia, o alle porte di Parigi dove sarebbe stato riscritto da un signore che si chiamava Molière? La commedia dell’arte è stata più veloce di internet nel diffondere e far conoscere culture diverse. E se oggi potessi allargare l’indagine su questo filo che mi sta molto a cuore, non nascondo che mi piacerebbe, usando la posizione di Firenze e la bellezza della sua Pergola, pensare a un «festival» del teatro italiano nel mondo.

Un’idea che ribalta la concezione corrente di festival «promozionale» di nostri prodotti

Sì, perché so che a Budapest hanno fatto una Donna serpente molto bella, o a Sofia in Bulgaria hanno portato in scena il Decamerone: ci sono cose molto belle in giro, mentre noi stiamo chiudendo le nostre cinte daziarie in maniera un po’ asfittica. Quando io ho tentato «l’assalto» ai teatri francesi o spagnoli, è perché fuori d’Italia c’era grande interesse, e grande richiesta, per il nostro lavoro. Cosa che oggi non c’è più: è una banalità dire che oggi l’Italia non ha all’estero una bella immagine. Teatralmente non parlo solo di me ovviamente, ma c’era una grande curiosità per nomi come Strehler o Ronconi. Oggi è come se la nostra teatralità fosse passata in farsa, berlusconiana. Penso che se oggi dobbiamo rifarci una faccia per quello che siamo, è importante ripartire dal 900, e dalla commedia dell’arte: se Dario Fo è diventato premio Nobel, è proprio perché è la faccia ultima della commedia dell’arte. Dopo che abbiamo passato un ventennio, non solo nel teatro, di «analfabetizzazione«, forse dobbiamo ricordare quelle cose anche ai giovani di oggi. E mi consola vedere le reazioni positive del pubblico più giovane a questi miei spettacoli in scena a Roma.

Non si può fare a meno di notare che da sempre, anche se hai con te la Compagnia Italiana, tu sei sempre stato un uomo da teatro pubblico: dai primi spettacoli a Bologna fino al Teatro di Roma e poi la Biennale di Venezia e ora Firenze, che come teatro comunale è una emanazione pubblica. Riconosci questa caratteristica, anche se parlare oggi di stabili può venire un senso di nostalgia, se non malinconia?

Sì, certamente mi sento legato al teatro pubblico, e senza nostalgia o malinconia. Perché, anche se ho una compagnia che mi affianca, continuo a credere nel senso pubblico del teatro. Dopo la chiusura dell’Eti, i due teatri di sua proprietà sono passati ai comuni di Roma e di Firenze. Il Valle occupato, cui pure sono stato tra i primi a portare solidarietà, oggi qualche interrogativo mi suscita. Alla Pergola, è stato il sindaco Renzi, presidente della Fondazione, a incaricarmi di un progetto, andato poi molto bene, dedicato ai 150 anni dell’unità d’Italia. E poi a chiedermi di occuparmi del progetto internazionale. Così mi trovo alla Pergola, che sotto la direzione di Marco Giorgetti e la presidenza di un assessore come Sergio Givone, vive in una situazione virtuosa, mentre perfino il Maggio Musicale accusa dei forti contraccolpi, anche se ricordo che il mio Viviani è nato lì, come prima il mio Galileo.

È vero però, che in questa «politica» del teatro, tu sei diventato importante non solo per gli spettacoli, ma per come hai saputo inventare e realizzare «progetti» attorno al teatro: dal Carnevale veneziano nel 1980 alle manifestazioni colombiane a Siviglia nel ’92, o dopo nel parigino Theatre des Italiens…

Credo che in questo senso ci sia da sempre in me il desiderio di aprire il rapporto ristretto che esiste tra platea e palcoscenico. Quando proposi il Carnevale a Venezia, il mio progetto era proprio di far arrivare un po’ d’aria fresca sui palcoscenici, e un po’ di fantasia nella piazza. Mi sono sempre sentito figlio di quei teatranti che non hanno mai voluto isolarsi: penso a Barrault che dopo lo spettacolo si poteva sempre incontrare al ristorante perché non voleva «isolarsi» dal suo pubblico, come poi del resto Vilar e Gerard Philipe.
Questo per dire che tu hai esplicato il tuo essere «regista» anche in queste grandi elaborazioni progettuali, che non si sono esaurite nei palcoscenici. Ora invece proprio sulla scena degli spettacoli che sono a Roma, concentri l’indagine impegnativa su un pezzo del 900, che è insieme storica e «geografica», dalla Roma siciliana di Brancati alla Napoli di Viviani alla Trieste di Svevo. Quasi un «viaggio in Italia» nel nostro immediato ieri

Sono modi diversi ma complementari del teatro. L’altro giorno stavo provando la ripresa del Viviani, e al momento della pausa, tutti sono andati a mangiare o a riposarsi, gli attori e i tecnici, e io sono rimasto solo nella sala dell’Argentina. Non si può aver idea di quanto sia bello stare soli in un teatro. Credo possa solo esser paragonato alla chiesa per chi crede. Per due ore il teatro, vuoto, ha sprigionato una impressionante «religiosità»: non era la piazza, ma un luogo di importanza assoluta. Tra le molte cose sbagliate che oggi si fanno, è la mancanza di attenzione ai teatri, anche a quelli chiusi e abbandonati. Sarebbero davvero luoghi da riconquistare, e ci farebbero vivere meglio. Magari puntando sulla formazione, rigorosa, di nuove generazioni di attori: da formare, e poi mandare in giro per l’Europa a far conoscere il teatro e la cultura italiani.