Bob Dylan probabilmente non lo ha neanche saputo, ma il suo concerto di Roma (il primo di un doppio appuntamento sold out all’Atlantico Live) ha avuto una premessa significativa al Parco della Musica, una specie di «trailer metaforico», messo in scena due giorni prima dell’arrivo del menestrello statunitense nella capitale.

Sul palco tre suoi concittadini, i Low, i quali giocano col folk statunitense e con la matrice che Dylan ha contribuito a codificare con la naturalezza e la disinvoltura di chi arriva da un paio di generazioni successive. Anche i Low vengono da Duluth, Minnesota, eppure le loro armonizzazioni vocali cristalline, i tempi dilatati dei loro tappeti strumentali sono molto lontani dai grumi nasali di Dylan e dalle sue cavalcate ora sardoniche, ora furenti, ora liriche. Le affinità poetiche però non si esauriscono in quelle grammaticali e quando i Low ad esempio «elettrificano» il loro folk o sovvertono acidamente certi canoni della forma canzone statunitense, giocando con la psichedelia e monitorando abilmente l’uso delle loro ritmiche adattandole ora a stilemi folk ora a strutture rock, finiscono inevitabilmente per regalare un eccelso tributo al loro concittadino emerito.

Il quale nel frattempo stava facendo sfracelli in Italia, conquistando il Teatro degli Arcimboldi a Milano con tre repliche successive.
C’è una lunga teoria di testimonianze sui live un po’ disastrati e barcollanti di Bob Dylan degli ultimi anni. Il suo Neverending Tour, oceanica impresa concertistica che lo tiene «in cartellone» da decenni, ha subìto spesso l’onta di performance vocali claudicanti, atteggiamenti stizzosi, strumentisti non all’altezza, stravolgimenti incomprensibili dei brani…Nel tour dei 72 anni il «tamburino elettrico» ha evidentemente deciso di rimettersi in riga, ingaggiare un manipolo di musicisti sintonizzati davvero con la sua musica, concentrarsi sugli arrangiamenti dei brani, sfoderare con maggiore piglio il suo inconfondibile imprinting vocale, gestire i tempi sul palco con una cadenza funzionale alla sua età.

Il pubblico di Roma è quello che ti aspetti: nessun giovanissimo, qualche giovane, moltissimi quaranta cinquantenni e qualche coetaneo di Dylan. La scaletta non sarà invece per niente prevedibile. Un astante attempato con codino e capelli radi e bianchissimi si lascia scappare un «se stasera fa Like a Rolling Stone posso morire qui»…Bob Dylan farà anche quel pezzo, proprio in chiusura di secondo set, sciorinando il testo celeberrimo intriso di crudeltà e di porte sbattute in faccia e farà anche molte altre cose che non ti aspetti, frequentando nel primo dei due concerti capitolini un consistente grappolo di canzoni che non aveva mai recuperato in questo tour. Il chitarrista Charlie Sexton apre il set con il ribollìo della sua acustica, invitando il bassista Tony Garnier, il batterista George C. Receli e l’altro chitarrista Stu Kimball ad unirsi al riff rock-blues di Leopard-Skin-Pill-Box Hat. A quel punto Dylan è già sul palco, piantato sulla mattonella da cui si sposterà solo una volta per cantare un pezzo nel microfono posizionato in mezzo al palco.

Per il resto dei brani la postazione prescelta da Dylan sarà quella davanti al pianoforte e anche l’armonica a bocca verrà usata con molta parsimonia. Cominciano le litanie in questa chiesa laica piena di adepti che è diventato l’Atlantico Live: «Non serve a niente accendere la luce, sono sul lato buio della strada» canta in Don’t Think Twice (It’s Alright) (da Freewheelin Bob Dylan 1963). È solo il secondo pezzo in scaletta in un concerto che alla fine ne metterà in fila ben diciassette, ma il pubblico è già sedotto e ha capito che non si troverà davanti a nessuna pantomima sconclusionata. Ci sarà solo un concerto di Bob Dylan e le sue canzoni immortali suonate per benino. «Il giocatore errante» continua ad «annoiarsi molto» canterà in Highway 61 Revisited – a ridosso dell’intervallo di una ventina di minuti tra la prima e la seconda parte – ma il songwriter di Duluth sembra invece aver preso gusto al sapore molto roots che gli regalano i suoi musicisti. «Grazie amici – dice alla platea – vi piace la mia grande band?» e poi riparte con la nenia affilata di Just Like Tom Thumb’s Blues(sempre dall’album del ‘65), chitarre e banjo a fargli da contorno mentre racconta delle donne di Ciudad Juàrez, di dee della penombra, di fama, di fortuna e di angeli appena arrivati dalla costa…

La tensione che poteva essere calata nella pausa torna subito a mille e da lì in avanti per Dylan, si tratterà solo di cadenzare il rush finale. Nei passaggi intermedi c’è tempo anche per una canzone d’amore scritta forse proprio a Roma più di cinquant’anni fa: Boots of Spanish Leather (finita poi in The Times They Are A Changin’ del 1964). La voce di naso che tutti riconoscono si fa, mano a mano che il concerto si consuma, anche un po’ più catarrosa, ma le parole continueranno a farsi comprendere fino alla fine e fino a un bis, in cui il vero lavoro di trasfigurazione è tutto nell’arrangiamento. All Along the Watchtower e le sue metafore bibliche sembrano perfette per chiudere i battenti della serata. Il testo recita infatti: «Deve esserci un modo di uscire di qui…c’è troppa confusione, non riesco ad avere un attimo di pace».

Dylan posa le parole su un ambiente scuro e ipnotico messo su ad arte dalla band e quando alla fine canta di «un’ora che si sta facendo tarda» e di «un vento che cominciò a ululare», la gente ha già perfettamente capito che il menestrello si sta per dileguare.