C’è un libro uscito da poco, molto interessante, che coloro che vogliono avere più familiarità con il mondo dell’estetica giapponese – al di là dei luoghi comuni – dovrebbero scoprire. Si tratta di «Kire: il bello del Giappone» (editore Mimesis). L’autore è il filosofo nipponico Ohashi Ryosuke, direttore onorario del «Nishida Kitaro Museum of Philosophy» a Kahoku e direttore del Japanisch-Deutsches Kulturinstitut di Kyoto dal 2014; la curatela è di Alberto Giacomelli, che inoltre firma una bella postfazione (nel lavoro di traduzione c’è anche da segnalare il contributo decisivo del professore Enrico Fongaro).
Ora, perché libro interessante? Se si deve essere specifici, si può dire che è un lavoro di ambito estetico che ruota attorno al «kire-tsuzuki», un concetto capitale – secondo l’autore – nell’esercizio del pensiero che viene dal Sol Levante. Di cosa si tratta? In nota, il curatore dell’operazione ci dice che «questa locuzione indica per Ohashi la paradossale compresenza di unità e cesura che permea la bellezza giapponese nel suo senso più elevato». In sostanza, un qualcosa che è configurabile come espressione intrinseca di un taglio, la cui azione libera e ingloba una paradossale dis/continuità (è questa la parola usata nella traduzione italiana di «kire-tsuzuki»).
Ora, scorriamo l’indice di questa pubblicazione. Il primo capitolo è dedicato alla «naturalezza e figurazione nell’antica cultura giapponese». Sono pagine in cui Ohashi ci guida verso una comprensione più profonda di alcune strutture architettoniche importanti sul territorio, come il santuario Kamosu, e allo stesso tempo ci introduce a tradizioni fondamentali in quel periodo, come il Buddhismo esoterico. Il secondo capitolo è invece principalmente dedicato al giardino di pietre di Ryoanji come spazio paradigmatico per il «kire-tsuzuki». Nei capitoli tre e quattro l’attenzione si sposta sulla modernità e l’epoca presente, contemplando analisi sul lavoro di scrittori e artisti ma anche ottime riflessioni di carattere più generale, come – per esempio – quella sul kire e il mondo moderno. Il capitolo seguente è invece tutto dedicato al suicidio di Mishima Yukio, fatto interpretato – fra storia, letteratura e cinema – proprio in relazione al kire. Questo stesso concetto rimane argomento fondante anche nell’ultimo capitolo, in cui l’autore focalizza l’attenzione su «Buddhismo e Shinto come fonti del sentire artistico giapponese».
Per Ohashi, le declinazioni del kire – cioè del taglio – sono innumerevoli. Il suo libro ce ne offre una panoramica illuminante. Ma forse l’esempio più flagrante è contenuto già nell’introduzione, dedicata al teatro «no». In queste pagine, l’autore fa spesso riferimento a Zeami (1363-1443), leggendario attore e drammaturgo, considerato uno dei fondatori – assieme al padre – di questo tipo di teatro. Nello specifico, Ohashi fa riferimento a Fushikaden, celebre scritto di Zeami, per spiegare l’uso dell’immagine del fiore autentico presente nel testo come manifestazione di una forza che non si fa soggiogare dal tempo. Contrariamente al fiore naturale, tale forza può essere espressa in modi «che non trapassano», indicando perciò qualcosa che non esiste in natura, ma «solo in un’arte come quella che viene sublimata da Zeami nel teatro no», cioè «la bellezza di un irreale che si mostra nel reale.» E non è forse questa una possibile parafrasi del significato di emozione?