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Il taglio dei parlamentari: una minaccia per la rappresentanza

Il taglio dei parlamentari: una minaccia per la rappresentanzaAula del Senato – LaPresse

Riforme Con i parlamentari ridotti a voce di costo, anziché favorire l’identificazione tra eletti ed elettori, si acuisce la contrapposizione e si svilisce la centralità del parlamento e del popolo nel sistema costituzionale

Pubblicato circa 5 anni faEdizione del 5 ottobre 2019

La rappresentanza parlamentare può essere correttamente definita come il cuore del sistema costituzionale. Rappresentare significa, letteralmente, rendere presente: rap-present-are.

Dalle pitture di animali nelle grotte preistoriche alle statue degli dei classici, dalle icone bizantine ai ritratti dei re dell’antico regime: è da millenni che riconosciamo alle immagini la capacità di esercitare sul piano taumaturgico, magico, simbolico, politico i pieni poteri dei prototipi, reali o astratti, che rappresentano.

MA CHI RAPPRESENTA il Parlamento, a chi appartiene il potere che trasmigra in esso proprio come accadeva per quegli antichi idoli? È un soggetto che non può farlo da sé, la cui presenza è tuttavia essenziale per il sistema politico-istituzionale. Parliamo del popolo, entità presupposta, immaginata, ipotizzata, richiamata, evocata da tutti, ma da nessuno concretamente conoscibile perché concetto astratto.

POPOLO è l’insieme dei cittadini: coloro ai quali si applicano le regole che attribuiscono la cittadinanza. Si può avere contezza dei singoli suoi componenti, ciascuno di per sé considerato, non del loro insieme. Eppure, è proprio al loro insieme che la Costituzione (art. 1, co. 2) attribuisce il potere fondamentale, quello che fa dello Stato ciò che è: la sovranità, il potere che non riconosce altri poteri superiori a sé. Si comprende, di conseguenza, il peso decisivo della rappresentanza: il supremo potere costituzionale è attribuito a un’astrazione, che solo la rappresentanza può concretizzare.

RENDERE presente il popolo è compito del Parlamento. Discendono da qui tutti gli altri suoi poteri, che gli consentono di esercitare un ruolo-guida nella determinazione dell’indirizzo politico. Il Parlamento fu collocato dai costituenti al centro del sistema proprio perché è in Parlamento, attraverso i partiti, che il popolo cessa di essere un’astrazione e si concretizza.

COM’È evidente, stiamo parlando di un artificio: che può funzionare più o meno bene. Ha ben operato nella prima fase della storia repubblicana, e in particolare tra l’inizio degli anni Sessanta e la fine degli anni Settanta: non a caso, gli anni in cui vennero approvate riforme capaci di rendere più giusta la società italiana. Ha, progressivamente, operato sempre peggio nei decenni successivi: punto di svolta, la trasformazione della legge elettorale da proporzionale in maggioritaria (1993), che ha alterato la costruzione della rappresentanza attribuendo la maggioranza nel parlamento a chi è minoranza nella società. La retorica sulla cosiddetta governabilità ha inquinato la riflessione in argomento, offuscando un profilo un tempo evidente e oramai controintuitivo: che le istituzioni costituzionali funzionano bene non se il governo può agire a briglie sciolte, bensì se il parlamento è realmente rappresentativo. Ed è quindi davvero capace di intercettare le istanze sociali profonde e rielaborarle in progetti politici durevoli e di ampio respiro.

È PER QUESTO che i costituenti avevano dedicato grande attenzione alla costruzione della rappresentanza, elaborando un meccanismo capace, almeno in potenza, di riprodurre in modo adeguatamente preciso le complessità della società italiana. Pur avendo uguali funzioni, Camera e Senato differivano notevolmente l’una dall’altro: per la durata (cinque e sei anni), per la base territoriale (nazionale e regionale), per l’elettorato attivo (18 e 25 anni), per l’elettorato passivo (25 e 40 anni). Stava a cuore la democrazia: non la ‘governabilità’.

L’ATTENZIONE per la rappresentanza spiega anche la scelta originaria sul numero dei parlamentari, stabilito non in modo fisso – come poi sancì la riforma costituzionale del 1963, che portò i deputati a 630 e i senatori a 315 – ma in rapporto alla popolazione: un deputato ogni 80mila abitanti e un senatore ogni 200mila abitanti. Un sistema che prevedeva, dunque, l’incremento dei parlamentari all’incremento della popolazione affinché rimanesse inalterata la capacità rappresentativa. Se fosse stato tenuto fermo, oggi avremmo, all’incirca, 750 deputati e 300 senatori: un totale superiore a quello attuale.

CHI OGGI considera la riduzione del numero dei parlamentari una priorità, motivandola con i risparmi (gonfiati) che ne deriverebbero, sembra ignorare la centralità della rappresentanza. Riducendo i parlamentari a una voce di costo, anziché favorire l’identificazione tra eletti ed elettori – fine ultimo della rappresentanza – ne acuisce la contrapposizione, in tal modo svilendo ulteriormente la funzione rappresentativa e, con essa, la centralità del parlamento, e dunque del popolo, nel sistema costituzionale. Così, chi diceva di voler costruire più democrazia, si trova invece a rafforzare l’oligarchia: paradosso involontario o boicottaggio intenzionale?

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