Dopo il perturbante padiglione Uk realizzato da Mike Nelson (2011) e quello spaesante di Jeremy Deller (2013) solo per citare gli ultimi, il British Council ha commissionato all’irriverente Sarah Lucas il padiglione nazionale di questa 56ma edizione della Biennale di Venezia. Presenza eccellente quella della Lucas, artista esplosa insieme ai sensazionalissimi YBAs negli anni Novanta e che, in questa occasione, preferisce – come giusto che sia – rimanere nel silenzio più assoluto su quelli che saranno i contenuti della sua installazione in Laguna. Di certo, la sua pratica mordace e insolente e la sua natura caratteriale incredibilmente schiva, si combinerà in una rappresentazione anticonvenzionale.

Oltre la banalità
Sarah Lucas (Londra 1962) ha esordito a Freeze, la mostra organizzata nei Dock Offices di Londra dagli studenti del Goldsmith’s College nel 1988, quei giovanissimi Damien Hirst, Fiona Rae, Angela Bulloch, Gary Hume, Angus Fairurst, Mat Collishaw e altri da cui poi germoglieranno gli YBA’s. Ma il vero decollo è stata, notoriamente, Sensation, la mostra londinese del 1997 alla Royal Academy of Arts, che tanto scandalo e turbamento provocò negli animi puritani dell’epoca. Sensation fu una scossa percettiva e esperienziale anche all’interno di un art system ancora arroccato su se stesso. Sarah Lucas si era già esposta con le due opere-manifesto, oramai celeberrime, come Eating a Banana (1990) e Two Fried Eggs and a Kebab (1992) che ne connotavano la portata provocatoria su temi come il sesso e il gender. Non solo. Ciò che viene contemporaneamente superata è la stereotipata idea di scultura, in una fusione di riscritture dell’anti-form e dell’object trouvé pregni di sarcasmo noir legati al lifestyle contemporaneo.

Definita dal direttore del British Council of Visual Arts Andrea Rose come «formidably inventive sculptor» motivo per cui è stata selezionata a rappresentare il padiglione UK, la sua verve intemperante destabilizza il concetto e la forma scultorea, abbattendo una classicità banale per trasportarla sul piano dell’imprevedibilità formale, tematica, materica, fisica. I pur evidenti richiami a Marcel Duchamp in Is Suicide Genetic? del 1996 e The Old In Out 1998 vengono alterati dal feeling crudo e punk di Lucas. Così come viene spesso richiamata in causa la analogia con Louise Bourgeois in tutte le numerose scultoree installazioni che fanno capo per esempio al ciclo di Penetralia (2008) ma che sono pregne di quell’humor anti-machista dell’artista inglese e di cui la sacralità formale della Bourgeois è completamente priva. L’attenzione sessuale della Lucas è oltremodo irridente, sfonda i pregiudizi culturali della sessualità, sfiorando crudamente i contorni dell’abuso e della violenza come nel famoso materasso sporco di macchie rosse su cui sono stese e rivestite da uno slip due cosce di maiale in I Might Be Shy But I’m Still A Pig (2000).

L’eros è potere
La continua connessione di imprevedibili peni, vagine, seni, genitali con uova fritte, kebab, pesci, pollo allude ad una sottile vena post-surrealista che attacca il sesso come strumento di assoggettamento maschilista e lo sbeffeggia come dipendenza culturale così come fa metaforicamente con il fumo attraverso le pop sculture realizzate con le sigarette in The Fag Show del 2000.
Dalle seminali installazioni di Bunny Gets Snookered (1997) che ci tramandano lo sfaldamento della forma di Eva Hesse, ovviamente riabilitati dalla perpetua ironia che connota il lavoro della Lucas alle sue visionarie cibachrome metaforiche (Chicken Knickers, 2000), passando per tutti i suoi caustici autoritratti (Divine, 1991; Self Portrait with Mug of Tea, 1993; Fighting Fire with Fire, 1996; Self-portrait with Fried Eggs, 1996; Human Toilet,1997; Got a Salmon On #3, 1997; Self Portrait with Skull, 1997; Smoking, 1998; Summer, 1998) e tutta la sua prolifica produzione di opere, Lucas rinnova l’orizzonte semantico che include simboli e tabù della società contemporanea. Di essi ne dileggia la loro apologia, di essi ne respinge la loro persistenza.

Attriti urbani
Sia pur ossessivamente avviluppata sui temi del gender in realtà si scosta (così come accade anche a Tracey Emin) da pertinenze femministe e post-femministe. C’è nel fare di Sarah un intimismo individuale e una visionarietà irritante che derivano soprattutto dal forte attrito con la realtà urbana da cui discende la sua appartenenza sociale. Basta ripercorrere le sequenze di About Sarah, il film che Elisa Miller le ha dedicato nel 2014 e che venne presentato all’International Film Festival di Rotterdam, per inquadrarne disciplina, intemperanza, irriverenza, gioco, ironia ed inventiva nella sua complessa personalità. E, se non bastasse ancora, scoprire come la stessa artista preferisca concentrarsi nei pressi di Aldeburgh, nella vecchia dimora che appartenne a Benjamin Britten o nella sua natale Islington, lontana dalle attrazioni metropolitane, con e nonostante le attenzioni e le sublimazioni dei vari Charles Saatchi, Sadie Coles, Barbara Gladstone e tutto il resto dell’art system.