A rischio di passare quasi per ottimisti in un’Europa che non offre certo l’occasione per esserlo, il risultato delle elezioni olandesi può leggersi come il segno di un limite, di una soglia che le destre nazionaliste e xenofobe non sono in grado di valicare. Geert Wilders avanza, ma non sfonda le linee del liberalismo europeista, l’espansione dell’Afd in Germania segna una battuta di arresto, in Austria il candidato della destra Norbert Hofer non è riuscito a scalare la presidenza della Repubblica, Marine Le Pen, pur contando su un buon radicamento sociale, solo grazie a un miracolo nero potrebbe passare al secondo turno delle presidenziali francesi. Insomma in Europa occidentale (nell’ex blocco del patto di Varsavia è tutta un’altra storia) la diffidenza nei confronti delle destre radicali resta ancora maggioritaria. Probabilmente più grazie alla memoria del fascismo e della guerra che non alle virtù dell’asfittica democrazia contemporanea. Così, a suggerire la permanenza nell’Unione europea, conta maggiormente il timore verso incerte avventure nazionali che non la speranza in una qualche forza propulsiva della Ue o nella sua democratizzazione.

In sostanza la minaccia di una presa del potere diretta da parte delle destre nazionaliste non è all’ordine del giorno. E, tuttavia, l’azione di queste forze condiziona fortemente il centro dello spettro politico. Può essere infatti agevolmente usata per spostare a destra l’asse delle politiche nazionali e, di riflesso, i rapporti di forze che contribuiscono a definire gli assetti dell’Unione e le sue linee di sviluppo. Così è stato per Angela Merkel che sulla politica migratoria, pur salvaguardando in qualche modo la questione di principio, ha dovuto ingranare concrete marce indietro, ricattata dagli alleati della Csu bavarese che agitavano lo spettro della destra più xenofoba. E così è stato per Mark Rutte in Olanda, che ha dovuto concedere terreno agli umori e alle passioni tristi dei possibili seguaci di Geert Wilders. La destra neoliberista si propone dunque come un argine a ben peggiori derive, mantenendo così il gioco politico europeo dentro il proprio campo a costi relativamente bassi. E qui ogni motivo di ottimismo dovrebbe essere dismesso.

Il gioco, tuttavia, può e deve essere rotto. Se non vi è nessun fascismo alle porte, e se ancora è operante il tabù che esclude le destre estreme dal governo nei paesi dell’Europa occidentale, allora non è necessario accettare una riduzione della democrazia e piegarsi alla conservazione dell’esistente per scongiurare questa pretesa minaccia. Né serve rincorrere pregiudizi xenofobi per prevenire uno scontro razziale in piena regola. La politica del “meno peggio” con il suo catechismo rinunciatario è precisamente il recinto dentro il quale si vorrebbero rinchiudere i cittadini europei.

In questo quadro il conto più salato lo pagano ormai da tempo le socialdemocrazie che in proprio (come in Francia) o all’interno delle grandi coalizioni (come in Olanda o in Germania) hanno controfirmato, quando non convintamente  promosso, politiche di austerità, privatizzazioni e smantellamento del welfare.

Rendendosi così irriconoscibili agli occhi del loro tradizionale elettorato e lasciando agio alla destra di speculare sulla “questione sociale”. Nei Paesi bassi la frana del Partito socialista ha raggiunto proporzioni inaudite e, si potrebbe dire, esemplari. Solo l’autodissoluzione del Pasok in Grecia può fungere da termine di paragone. In Francia l’identità politica del Ps è talmente svaporata da condannare il presidente Hollande alla sparizione. In Austria e in Germania il declino dei partiti socialdemocratici, anche se meno rovinoso e improvviso, è stato costante e inesorabile. Le Riforme del governo di Schroeder che hanno fatto la rovina della socialdemocrazia tedesca sono state una mano santa per i suoi successori democristiani.

Ai vertici della Spd, con estremo ritardo nel percepire gli effetti devastanti dell’omologazione centrista, il partito ha giocato, con apparente successo, la carta di Martin Schulz chiamato a ridisegnare una distinzione ben visibile tra la socialdemocrazia e i cristiano-democratici di Angela Merkel.

In Francia la vittoria di Benoît Hamon alle primarie del Partito socialista indica una analoga esigenza della base, ma decisamente avversata dai notabili del partito e indifferente alla sinistra di Mélenchon. Che dunque resterà probabilmente priva di uno sbocco politico. In Olanda, infine, il clamoroso successo dei verdi di sinistra testimonia la ripresa di contenuti radicali non puramente difensivi. Quel che resta del partito socialista olandese dovrà ora scegliere tra l’estinzione e un cambio integrale del suo corso politico. Insomma è sulla ripresa di tematiche sociali e redistributive  che nuovi spazi vanno aprendosi in diversi paesi dove il “voto utile” ha palesato tutta la sua evidente inutilità.