Il sussidiario dei «saggi» sulle solite grandi riforme
Larghe intese La relazione della «Commissione per le riforme costituzionali» è una pura ricognizione delle ipotesi di cui si parla da anni. Legittima tutto e il suo contrario, in nome di un’efficienza «tecnica» che non colmerà mai la carenza «politica»
Larghe intese La relazione della «Commissione per le riforme costituzionali» è una pura ricognizione delle ipotesi di cui si parla da anni. Legittima tutto e il suo contrario, in nome di un’efficienza «tecnica» che non colmerà mai la carenza «politica»
Perché si sono voluti scomodare 42 esperti, alcuni di questi assai autorevoli, per scrivere un vademecum delle riforme costituzionali? È questa la domanda che sorge spontanea terminata la lettura delle 40 pagine della relazione finale della Commissione per le riforme costituzionali. Una chiara e strutturata esposizione delle diverse proposte di riforma che, da oltre trent’anni, si vanno discutendo in Italia. La Commissione di esperti non giunge a proporre una sintesi unitaria. E questo è un bene: il parlamento è l’unico titolato, non solo a decidere, ma anche a scegliere tra le proposte di riforma possibili.
Secondo alcuni l’utilità di questa Commissione è di aver messo in ordine una discussione ventennale, fornendo al Parlamento del materiale che può far comprendere anche ai nostri inesperti rappresentanti le possibili opzioni e le conseguenze delle diverse scelte. Ma per far questo sarebbe stato sufficiente incaricare gli ottimi uffici studi di Camera e Senato, che elaborano sistematicamente degli eccellenti dossier su tutte le principali questioni di interesse parlamentare. Aver scelto la strada dell’istituzione di un’apposita commissione governativa di esperti estranei al circuito della rappresentanza (sebbene scelti in base alle indicazioni delle forze politiche) è motivata da una particolare ragione: agli esperti si chiede un surplus di legittimazione.
Un sistema politico debole e una classe dirigente in crisi di rappresentanza non sono nelle condizioni di modificare la legge «suprema». L’attuale maggioranza di larghe intese non è d’accordo su nulla, figuriamoci se può essere in grado di stipulare un nuovo «contratto sociale». E, allora, come la storia insegna, in queste situazioni la neutralizzazione e la spoliticizzazione appare la via d’uscita per imporre una soluzione legittima in assenza della necessaria forza politica.
È qui però che si nasconde l’intrinseca debolezza dell’intera operazione messa in piedi dal governo delle larghe intese. Non si può, infatti, pensare alla riforma della Costituzione come a un’operazione puramente tecnica. Né possono gli «esperti» spogliarsi della propria visione del mondo quando si confrontano sul piano della riforma del testo costituzionale. Non fosse altro perché – come ha insegnato Vezio Crisafulli a tutti i costituzionalisti di qualunque sensibilità o tendenza – non si può separare il «concetto politico» di costituzione dal suo «concetto documentale».
Il più grave errore dell’attuale maggioranza di larghe intese è pensare alla Costituzione come mero strumento di efficienza delle nostre istituzioni (in una visione strettamente funzionalista, dunque), anziché intenderla come una tavola di valori e principi costitutivi di una determinata realtà storica, politica e sociale.
Ciò è tanto vero che neppure gli esperti hanno potuto far prevalere la tecnica sulla politica. Sui punti più controversi si sono delineate nette divergenze. Di esse la relazione dà puntualmente conto. Ma in tal modo è chiaro che l’effetto principale del lavoro degli esperti è di legittimare tutte le diverse opzioni, ciascuna con una propria «copertura» scientifica.
Esemplare è la parte dedicata alla questione che più di altre rappresenta il punto di divisione tra diverse concezioni costituzionali e politiche. Quale forma di governo? La scelta, che si proponeva come alternativa, tra una prospettiva di parlamentarismo razionalizzato ovvero quella del semipresidenzialismo non è stata fatta. Si afferma soltanto che «ciascuna di esse è coerente con i principi delle democrazie occidentali».
Ma che vuol dire? Se si intende che tanto l’una quanto l’altra sono modelli adottati in paesi occidentali considerati democratici (la Germania e la Francia, ad esempio) non c’era certo bisogno di far lavorare una Commissione, bastava un sussidiario di diritto costituzionale comparato. Evidentemente è un altro lo scopo di tale affermazione di principio. Quello in sostanza di legittimare per il nostro paese ogni possibile riforma, sdrammatizzando la contrapposizione tra i due modelli e indirizzando la discussione su binari, ritenuti più tranquillizzanti, della mera efficienza: «La scelta – si spiega infatti nella relazione – dev’essere effettuata valutando le esigenze che ispirano la riforma, le possibilità del sistema di assorbire senza distorsioni l’impatto della innovazione, l’esistenza di realistiche possibilità di realizzare il disegno riformatore».
In tal modo però si finiscono per offuscare le reali ragioni che valgono a distinguere i due modelli. Non l’efficienza del sistema, bensì i valori costituzionali perseguiti si pongono alla base della scelta su quale forma di governo. Qui non possiamo che semplificare, ma può dirsi (grossomodo) così: se si vuole valorizzare la rappresentanza politica e il ruolo del parlamento negli equilibri tra i poteri l’opzione del parlamentarismo razionalizzato appare la più idonea, se invece si preferisce una concentrazione dei poteri e una rappresentanza incentrata sull’esecutivo e il suo Capo (primo ministro o presidente della Repubblica) la via semipresidenziale, o comunque di elezione del premier, appare la più consona. So bene che la complessità delle forme di governo non può essere ridotta a una così netta dicotomia (v’è ad esempio da considerare la trasformazione del ruolo del capo dello Stato o i riflessi sulla stabilità degli altri poteri), ciò che però a me sembra indiscutibile è che è sul piano dei valori costituzionali e non delle mere tecniche di efficienza che può valutarsi una forma di governo.
In questa prospettiva anche il tentativo di mediazione proposta dalla Commissione non risulta – almeno ai miei occhi – convincente.
Ibridando i due sistemi si propone una «forma di governo parlamentare del Primo Ministro». Ma poiché i due modelli – come s’è accennato – seguono logiche di sistema diverse, anzi per molti versi contrapposte (diffusione vs. concentrazione del potere), il risultato finisce per essere, da un lato, l’indebolimento delle ragioni del parlamentarismo, dall’altro l’introduzione di un presidenzialismo «mascherato». Di più: in questo caso quel che si propone è una sorta di razionalizzazione dell’esistente. La «costituzionalizzazione», in sostanza, dell’«indicazione» del candidato premier.
Si fornirebbe così una base costituzionale ad una prassi distorsiva della forma di governo parlamentare prodotta dal sistema politico negli ultimi anni, che ha teso a minare tanto il potere di nomina del Governo assegnato al capo dello Stato quanto il potere del Parlamento di conferire o meno la fiducia. Da qui l’indebolimento della forma di governo parlamentare e il definitivo approdo in Costituzione delle pulsioni presidenziali che hanno attraversato l’ultimo ventennio: una «vittoria» per vie traverse e non dichiarata del presidenzialismo, una «sconfitta» onorevole e consolatoria dei razionalizzatori della forma di governo parlamentare.
La relazione spesso si limita ad accompagnare le tendenze in atto, con uno scarso tasso di innovatività e poca volontà di criticare l’esistente: eppure proprio l’insofferenza rispetto allo stato di cose presenti dovrebbe essere alla base di ogni profonda revisione della Costituzione.
Così la proposta di modifica del sistema bicamerale è assai blanda, rimanendo la possibilità al Senato di richiamare tutti i disegni di legge ordinari (e di legge organica) approvati dalla Camera. Anche di fronte alla decisa – e fondata – critica della vigente forma di Stato (la modifica del Titolo V ha prodotto un mare di guai) la Commissione non propone alternative coraggiose, salvo forse la giusta richiesta di razionalizzare e semplificare l’articolo 117, ma anche su questo ipotizzando alternative tra loro assai diverse.
Rimane, inoltre, sostanzialmente indeterminato il volto del Senato delle regioni: cosa rappresenta (i Consigli regionali, i Presidenti delle regioni, la popolazione dell’ente territoriale, anche i comuni?), come viene composto (elezione diretta o indiretta e di che tipo?), quali siano le sue funzioni (di programmazione o di amministrazione diretta?), non viene chiarito. Modelli diversi si intrecciano, annegati in una polifonia di misure suggerite.
Rimangono le questioni su cui s’è registrata in Commissione la più ampia condivisione. Prima di ogni altra la riduzione del numero dei parlamentari, nonché la consapevolezza dei rischi collegati alla profonda crisi dei partiti tra queste. Ma non credo ci fosse bisogno di istituire un’autorevole Commissione per affermare che sono troppi i parlamentari o che i partiti non stanno tanto bene.
In ogni caso, non voglio troppo ironizzare. Il materiale e gli spunti forniti dalla Commissione potranno essere discussi in altre occasioni e in diversi contesti. Per ora mi limito a constare che la citazione di Machiavelli posta in epigrafe appare rivelatrice: «…tutto netto, tutto senza sospetto non si truova mai».
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