Presentandosi come un divoratore di storie, amante della chiacchiera, del pettegolezzo e delle esagerazioni, Saleem Sinai, protagonista e narratore del capolavoro di Salman Rushdie, I figli della mezzanotte – esordisce così: «ci sono tante storie da raccontare, troppe, un tale eccesso di linee eventi miracoli luoghi chiacchiere intrecciati, una così fitta mescolanza d’improbabile e di mondano! Sono stato un inghiottitore di vite; e per conoscermi, dovete inghiottire anche voi tutto quanto». A chi ascolta il suo lungo racconto richiede di farsi a sua volta «inghiottitore di storie», lasciando intendere che nella sua narrazione dell’India novecentesca preferirà i «si dice» del chiacchiericcio popolare e le futilità del pettegolezzo alla presunta oggettività storica.

Del resto, la sua nascita allo scoccare della mezzanotte del 15 agosto 1947, giorno dell’indipendenza indiana, gli ha conferito magici poteri destinati a trasformarlo letteralmente in una sorta di umana radio ricetrasmittente, in grado non solo di chiamare a raccolta tutti gli altri bambini magici nati nella stessa notte, ma anche di penetrare nelle menti altrui. E se la possibilità di convocare nella sua testa la «conferenza dei figli della mezzanotte» si manifesterà solo alle soglie della preadolescenza, ancora neonato Saleem mostra già una straordinaria propensione a curiosare nelle vite altrui. Coccolato da tutti gli abitanti del comprensorio in cui risiede, la proprietà Methwold, fin da piccolo viene a conoscenza dei più inconfessabili segreti, che gli adulti non si premurano di nascondere, non immaginando che «anni dopo, qualcuno avrebbe potuto guardarsi indietro con i suoi occhi di bambino e scoprire così tutti gli altarini».

Più grande, nascosto nella cesta del bucato, Saleem ha modo di cogliere in flagrante la madre (spiando le sue telefonate al primo marito, un poeta rivoluzionario ricercato dalla polizia) e osservare i turbamenti erotici che nascono da quelle conversazioni. Nei bazaar, impara a guardare il mondo con l’occhio del voyeur, interpretando le scene di strada e le conversazioni origliate in maniera affatto personale.
È proprio dalla consuetudine di intromettersi non visto nelle altrui esistenze che nasce la sua contronarrazione, in cui chiacchiere e pettegolezzi si intrecciano ai fatti conclamati. Ascoltando i discorsi degli adulti e spiandone le mosse, Saleem conosce situazioni che, data la sua giovanissima età, non riesce a comprendere e che cerca di interpretare alla luce del banale buonsenso popolare e dei pettegolezzi riportati dalla governante «come incontestabili dati di fatto».

Complice di infedeltà
Drammaticamente «ammanettato alla storia» dal giorno della sua nascita, Saleem – guardone ai margini del reale – si convince di essere causa e primo motore di tutti gli eventi indiani più importanti del secondo novecento, dalle crisi politiche di portata internazionale ai casi di cronaca più famigerati. Non stupisce che il primo episodio di rilievo in cui Saleem assume (o crede di assumere) la funzione di catalizzatore di eventi storici è il caso Sabarmati, un fattaccio di cronaca nera in cui si intrecciano, si sovrappongono e precipitano personaggi, situazioni, eventi, che occupano un decennio di vita familiare e sociale, a riprova di come, per seguire il tortuoso percorso narrativo e umano del «divoratore di storie», i lettori debbano, a loro volta, inghiottire un mondo di racconti.

Modellato su un famoso omicidio dei primi anni Sessanta, che dette luogo al primo processo mediatico indiano, il caso Sabarmati sembra proporsi come specchio dello stesso racconto di Saleem, tutto giocato tra i due poli della cultura popolare (veicolata dalla radio, dalle chiacchiere dei bazar e dai giornali scandalistici) e della folla (di cui Rushdie cerca di riprodurre, anche nella forma del suo racconto, la confusione, il chiasso, la vitalità e l’energia). Questo episodio, per anni oggetto di gossip e fonte di interesse per la stampa scandalistica e i media indiani, è lo spartiacque del romanzo, che segna la fine dell’infanzia di Saleem. Proprio in questo periodo, infatti, il protagonista scopre i propri poteri telepatici, magica estremizzazione della sua congenita natura di ficcanaso (metaforizzata, iconograficamente, dal suo naso spropositatamente enorme).

Complice fin da quando era in fasce delle infedeltà della signora Sabarmati e testimone degli inizi della sua relazione con il produttore Homi Catrack, già amante di sua zia Pia, bellissima attrice, Saleem, avendo conosciuto telepaticamente il dolore della zia per l’abbandono di Catrack, decide di vendicarla. Grazie alla propria instancabile attività di ficcanaso, ha già scoperto gli incontri clandestini della propria madre con il primo marito, dunque si risolve ad agire. Invia una lettera anonima al comandante Sabarmati, il quale, avuta da un detective privato la conferma del tradimento, corre al nido degli amanti e li uccide entrambi a bruciapelo. La lettera ha conseguenze disastrose per tutti gli abitanti della proprietà Methwold, le cui vicende nel corso degli anni si sono intersecate, mentre i segreti si sommavano e le tresche si ingigantivano, sotto l’occhio attento del piccolo Saleem.

Nei Figli della mezzanotte la manifesta curiosità di Saleem tradisce l’attenzione di Rushdie per lo sguardo come veicolo di interpretazione. Proprio all’inizio del capitolo significativamente intitolato «Radio All-India», in cui si manifesta per la prima volta la conferenza dei bambini di mezzanotte, si trova una delle più importanti riflessioni dello scrittore indiano su illusione e realtà:«La realtà è un fatto di prospettive (…) Immaginate di trovarvi in un grande cinema, seduti all’inizio di una delle ultime file, e poi di venire avanti a poco a poco, una fila dopo l’altra, fin quasi a premere il naso contro lo schermo. A poco a poco I volti dei divi si dissolvono in una grana danzante; i più piccoli particolari assumono proporzioni grottesche; l’illusione svanisce – o meglio, risulta evidente che è proprio l’illusione la realtà».

La perdita dei potere telepatici
Anche il ficcanasare di Saleem è un gioco illusorio di prospettive: quanto sembra fattibile dal nascondiglio nella cesta del bucato risulta tragicamente grottesco se affrontato nella realtà. Allo stesso modo, Saleem può illudersi di creare un mondo all’interno della sua mente, ma non evitare che, di fronte al reale, quello stesso mondo lo travolga. Così, mentre i bambini della mezzanotte di cui ode il vociare rimangono per lui, «una sorta di mostro a più teste, che parlava nella miriade delle lingue di Babele», intromettendosi telepaticamente nei pensieri altrui si persuade di incidere sul reale, anzi, di creare senz’altro la realtà: «Mi stavo (…) convincendo che ero in certo qual modo vicino alla creazione di un mondo; che i pensieri entro i quali balzavo erano i miei, che i corpi che occupavo obbedivano ai miei ordini; che, mentre si riversavano in me le vicende di attualità, le arti, gli sport, l’intero ricco varietà di una stazione radio di prim’ordine, ero io in realtà che in qualche modo li facevo accadere».

Perduti i poteri telepatici proprio in seguito a un intervento al naso, Saleem si avvia verso un crollo rovinoso che lo porterà, adulto, dopo un susseguirsi di tremende esperienze, a nascondersi ancora in una cesta, nel ghetto dei maghi: questa volta, però, non per spiare le vite altrui, ma per scoprire «che cos’era, che cosa sarà essere morto». È l’esatto contrario del ficcanasare: vedere il mondo come un fantasma, «confusamente, vagamente, debolmente (…) sospeso in una sfera di assenza». Sparisce, nella cesta dei maghi, il Saleem impiccione; si fa strada in lui la volontà di non essere più «altro da ciò che sono (…)»: essere invece, come ogni individuo, una moltitudine che contiene tutto ciò che è stato e sarà, «la somma di tutto ciò che è accaduto prima di me, di tutto ciò che mi si è visto fare, di tutto ciò che mi è stato fatto (…) ogni persona e ogni cosa il cui essere al mondo è stato toccato dal mio».