«La nazione prega per Madiba» si poteva leggere ieri mattina all’alba su uno dei tanti manifesti di un giornale locale affissi sui pali della luce lungo la strada principale che collega Cape Town ai suoi sobborghi. Le notizie più importanti del giorno si trovano urlate così, sul ciglio della strada, insieme agli annunci degli eventi culturali del momento.

Ma ieri mattina, ancora buio, quelle poche righe risuonavano enfatizzate dal comunicato radio che in un flash perfettamente sincronizzato lanciava le ultime news iniziando da Mandela: nessun nuovo comunicato diffuso dalla Presidenza né dalla famiglia dopo quello di sabato mattina seguito al suo ricovero d’urgenza in un ospedale di Pretoria per un acuirsi delle condizioni respiratorie.

La famiglia dell’ex presidente sudafricano si è da più di quarantotto ore chiusa in un silenzio assordante. Blindato anche agli esponenti dell’African National Congress (Anc) a cui, al pari degli altri, è stata vietata ogni visita. Non è chiaro se nel tentativo di difendere i suoi ultimi sospiri dalla deriva “informazionale” o piuttosto dalla retorica politica dei partiti già in salsa pre-elettorale.

La figlia di Nelson, Zindzi Mandela, domenica scorsa dopo la visita in ospedale avrebbe dichiarato che Madiba stava bene ed era combattivo mentre il portavoce di Zuma Mac Maharaj ieri, negando che alcun divieto di visita fosse mai stato pronunciato dai parenti di Mandela, ha spiegato che piuttosto si tratta di normali procedure mediche previste per i malati in terapia intensiva.

[do action=”quote” autore=”Desmond Tutu”]«La mia preoccupazione è che non ci stiamo preparando, come nazione, per il momento in cui l’inevitabile accadrà. Il trauma della sua morte sarà molto intenso, se non cominciamo a prepararci al fatto che succederà»[/do]

Era stato Desmond Tutu agli inizi di maggio su un settimanale locale, il Mail&Guardian, a rendere noto sommessamente un peggioramento delle condizioni polmonari di Mandela: «La mia preoccupazione è che non ci stiamo preparando, come nazione, per il momento in cui l’inevitabile accadrà. Il trauma della sua morte sarà molto intenso, se non cominciamo a prepararci al fatto che succederà». Ma alla notizia non era seguito alcuna eco mediatica.

I sudafricani, neri e bianchi, benestanti e poveri, sono divisi e combattuti tra la consapevolezza che sia ormai giunta l’ora terribile, il tempo di lasciarlo andare – come vuole un’antica tradizione culturale del posto – e la determinazione a trattenerlo. Gli auguri di pronta guarigione sono arrivati dall’African National Congress – il suo partito e partito di governo dal 1994 -, dal maggior partito di opposizione, Democratic Alliance (Da), e tra gli altri maggiori soggetti politici, dal South African Communist Party. Così pure da leader internazionali come David Cameron e Obama oltreché da comuni cittadini, giovani e meno giovani.

«È tempo di lasciarlo andare» ha titolato domenica scorsa il locale Sunday Times riportando le parole del compagno di prigionia a Robben Island, Andrew Mlangeni: «Devono lasciarlo andare spiritualmente. Una volta che la famiglia lo lascerà andare, il popolo del Sudafrica seguirà».

Se guardiamo al Sudafrica di questi giorni, che ancora vive forti tensioni, divisioni e diseguaglianze, non crediamo che sia ancora giunto per Madiba il momento di andare.