Soweto si mostra alla Maison Rouge di Parigi (fino al 22 settembre) e lo fa in un momento particolare per il Sudafrica, mentre il suo leader versa in condizioni critiche in un ospedale, lottando fra la vita e la morte (ieri però ha sorriso ancora una volta). Così la città di Johanneburg, «l’inafferabile», alza il sipario sulla sua creatività e riunisce i artisti e fotografi, spesso dispersi per il mondo. La nouvelle vague di Joburg sprizza energia da tutti i pori e catapulta il paese al centro del mondo. Dinamica, lisergica, mutante, la metropoli viene declinata nelle fantasie di cinquantasette artisti, non disdegnando di accogliere su di sé umori horror e inquietanti e visioni umoristiche e beffarde. È così che all’installazione Security di Jane Alexander – un recinto di filo spinato che fa da gabbia a un essere alieno, metà uccello e metà umano, il «viandante» per eccellenza, il migrante senza territorio – risponde l’irriverente Tracey Rose (Durban, 1974) che spesso ha affidato a gesti provocatori la sua guerra culturale. Tra il 2002 e il 2007 ha lanciato un movimento situazionista «in cui urinavamo sui prati davanti le case dei quartieri di lusso. Era un’attività clandestina, praticata soprattutto di notte. La nostra metafora era quella del kamikaze che si fa saltare in aria…». L’orgoglio sudafricano è invece «scolpito» nelle statuette degli atleti della squadra nazionale: Johannes Segogela, autodidatta, ex elettricista e saldatore, ha intagliato nel legno i calciatori con le magliette verdi e gialle: in una precedente sua opera di soggetto simile, al centro c’era schierato anche Nelson Mandela, con la mano sul petto a cantare l’inno. Mary Sibande (Barbeton, 1982) mette in scena i suoi alter ego di famiglia nel simulacro di Sophie: madre e nonna che lavorano come domestiche vengono ritratte e trasformate in monumenti. Sophie veste esclusivamente in blu, «il colore degli operai, il blu del lavoro – spiega l’artista – La particolarità di quel grembiule? Cancella il corpo che lo abita, nega una identità». Sue Williamson (vive e lavora a Cape Town, ma è nata nel 1941 in Inghilterra) è una intellettuale a tutto campo: scrittrice, fotografa e filmmaker, da anni indaga tra le pieghe della globalizzazione, evidenziando le contraddizioni di una crescita urbana esponenziale. Nella serie di video Better Lives (2003) riprende alcuni immigrati che snocciolano sogni e aspettative. Già anni prima dell’ondata xenofoba del 2008, Albert e Isabelle avvertivano: «L’Africa del Sud è un bel paese, ma per gli stranieri neri è un calvario e non un cammino verso la libertà».