Libertà di scelta, posizione dominante, monopolio sono le parole usate per legittimare la multa inflitta dall’Unione europea a Google per aver usato Android come mezzo per costruire un monopolio nella raccolta pubblicitaria nella telefonia mobile.

Le authority e le istituzioni sovranazionali hanno sempre svolto una essenziale funzione politica: hanno cioè regolato il mercato, decretando il declino di imprese troppo potenti per essere contrastate per via economica. È accaduto negli Usa con Att, frammentata in società regionali all’inizio della controrivoluzione neoliberista, aprendo così la strada ad altre società più adeguate ai mutamenti che la rivoluzione del silicio stava provocando. È stato così con Microsoft, quando l’azione congiunta del dipartimento della giustizia statunitense e dell’Unione europea ha scalzato dal trono la società di Bill Gates per lasciare spazio ai nuovi baroni della Rete. E di recente Bruxelles non ha avuto molti dubbi nell’attaccare la compravendita di dati che ha visto protagonista Facebook nell’affaire Cambridge Analytica.

Quella di ieri, tuttavia, è una decisione che produce un cambiamento nei rapporti tra politica ed economia a livello globale. Ad essere investito è il capitalismo delle piattaforme, cioè un habitat che ha ignorato confini nazionali. Da ieri tutto è messo in discussione e già si intravede all’orizzonte il formarsi di un inedito «sovranismo digitale». La decisione di multare Google non è nuova. È infatti già accaduto con Google Search. Ora è la volta di Android, il sistema operativo targato Larry Page e Sergej Brin per smartphone. I primi commenti alla decisione europea hanno sottolineato l’ammontare della multa, la più alta da quando la Commissione europea ha cominciato a intervenire su questa materia. Una cifra astronomica, tuttavia, che Google incassa in una manciata di giorni.

La rilevanza della decisione sta nel contesto del tira e molla tra vecchio continente e Stati Uniti e nel fatto che nel bersaglio è finito un software formalmente open source, cioè non regolato dalle norme istituzionali sulla proprietà intellettuale. La multa non è però l’esito di un rapporto tra causa ed effetto dei dazi stabiliti da Trump per colpire le imprese europee, ritenute dall’inquilino alla Casa Bianca «nemiche» dell’America. Segnala semmai il fatto che una volta iniziata una guerra commerciale non ci sono più zone franche per nessuno.

Google ha novanta giorni per adeguare Android a quanto stabilito dall’Europa, ma è certo che la società di Page e Brin non ha più la libertà di movimento che ha avuto fino ad ora. E dato che la globalizzazione non è un pranzo di gala, altri paesi punteranno l’indice sul «diavolo» di Mountain View . Al di là del fatto che la presidente della commissione europea, la danese Margrethe Vestager, proviene dal gruppo socialista e che non ha mai nascosto le critiche all’operato delle major della Rete, la decisione sancisce il fatto che la globalizzazione 2.0 vedrà gli Stati-nazione molto più «interventisti» nell’attività economica di quanto è accaduto negli ultimi trent’anni. In fondo, sta proprio nel «ruolo pastorale» dello Stato nel plasmare le condizioni delle attività economica il punto di forza del modello cinese rispetto a quello finora egemonico, dove i governi nazionali erano chiamato a svolgere un grigio lavoro burocratico di amministrazione dell’esistente. Non un ritorno al passato dello Stato innovatore di keynesiana memoria, ma il prevalere della logica «più Stato per più mercato». Sarà infatti questo il marchio che accompagnerà i rapporti di potere globali nel capitalismo delle piattaforme.

D’altronde la Silicon Valley guarda con attenzione e preoccupazione quello che si muove tra le due sponde dell’Atlantico e del Pacifico. Da quando si è insediato Donald Trump alla Casa Bianca e da quando Pechino ha annunciato programmi di investimento faraonici per rendere la Cina una società della conoscenza i big five della Rete (Amazon, Google, Apple, Facebook e Microsoft) stanno adeguando le loro strategie a una realtà in vorticoso sommovimento perché non possono certo rimanere alla finestra e assistere da spettatori passivi alla nazionalizzazione della Rete. Il secondo aspetto della decisione europea riguarda proprio la natura giuridica di Android. È un habitat per la cosiddetta economia delle app, ma è soprattutto un sistema operativo open source, anche se non usa nessuna delle licenze Creative Commons o copyleft. È casomai una licenza embedded, perché chi installa Android deve sottostare a vincoli stabiliti da Google.

È tuttavia la prima volta che un software open source sia indicato come strumento per costruire un monopolio. Con la sua decisione l’Unione europea legittima di fatto il software tutelato da norme alternative alle leggi sul copyright e sui brevetti deliberati da parlamenti nazionali o organismi internazionali come il Wto, l’Unione europea o altre istituzioni sovranazionali. Quello che si profila all’orizzonte è la formazione di un regime misto, cioè proprietario e/o open source, comunque favorevole alle imprese. Con buona pace dell’etica hacker.

Il combinato disposto di queste due elementi – il cambiamento del ruolo dello Stato e il regime misto della proprietà intellettuale – modifica il capitalismo delle piattaforme, imprimendo una accelerazione ad alcune tendenze in atto, come ad esempio l’entrata in campo nel risiko di Internet di altre major, come la cinese Alibaba, i gestori dei Big Data della logistica, i produttori di programmi informatici che utilizzano l’intelligenza artificiale. Google correrà ai ripari, certo, ma non mostrerà più i denti, preferendo fare buon viso a cattivo gioco. Più o meno come ha fatto Mark Zuckeberg quando è salito sul banco degli accusati a Bruxelles per l’affaire Cambridge Analytica. Quel che è certo è che il tempo delle big five della Rete è ormai agli sgoccioli.