Il linguaggio non è mai una questione banale. C’è chi usa le parole senza pensarci, chi le adopera volutamente come pietre e chi si interroga sui loro significati reconditi. Questi ultimi non sempre hanno vita facile. Ho un amico che ama il cosiddetto Marocchino, composizione di caffè, cioccolata calda, polvere di cacao, crema di latte montato servito in bicchierino di vetro in modo da mostrare i diversi colori della bevanda. Diffusissimo nei bar italiani, pare che la sua origine venga dal bicierin di torinese tradizione. Poiché so che le varianti sono infinite e non vorrei farmi lapidare dai lettori più edotti, dico subito che non voglio disquisire della ricetta, ma del nome.

Tornando al mio amico, da anni lo vedo ingaggiare una battaglia linguistica con i baristi al momento di chiedere un Marocchino. Lui non vuole chiamarlo così perché gli sembra di praticare del razzismo verbale. Sostiene che è sminuente usare l’appellativo di una nazionalità, e quindi l’origine di una persona, per chiamare un caffè, sebbene complesso. Gli sembra ancor più inaccettabile la velata allusione al colore della pelle. Appena ha scoperto che lo si può denominare anche Cavour o Montecarlo, ogni volta prova a usare una delle due allocuzioni. In anni di tentativi su e giù per l’Italia, avrà trovato tre baristi che hanno capito al momento che cosa intendeva. La maggior parte lo guarda fra l’allibito e lo sconfortato. I più audaci gli dicono «Mi deve aiutare, perché proprio non lo conosco». I più timidi stanno zitti e si rivolgono ai colleghi chiedendo sottovoce «Ma tu sai che cos’è un Cavour o un Montecarlo?». Lui, allora, comincia ad arrampicarsi sulle parole e, per evitare di nominare il fatidico Marocchino, prova a spiegare com’è fatto il caffè che desidera. Appena i baristi capiscono di cosa si tratta, esclamano felici «Ah, ma è un Marocchino!» e il mio amico risponde, sconfortato, che sì, in effetti si tratta di quello, ma che lui non vuole chiamarlo così perché gli sembra razzista.

I baristi lo ascoltano, ma si vede lontano un chilometro che non capiscono le sue argomentazioni, e poiché sono abituati a vederne e sentirne tante, annuiscono e si girano a preparare il Marocchino/Cavour/Montecarlo. La questione ha anche impegnato me e lui in variegate discussioni. Io gli ho detto che né Montecarlo o Cavour sono due nomi di cui andare fieri. Il primo perché ricorda un principato popolato di evasori e ricconi dove lui non andrebbe neanche a pagarlo.

Il secondo perché evoca la figura di un politico abile, ma che amava oltre misura i compromessi e fece troppi favori ai Savoia. Lui annuisce, ma sostiene che fra i tre mali Moncarlo è il minore, almeno verbalmente parlando. Ho provato a dirgli che, ormai, Marocchino è così diffuso che la sua è una battaglia impervia e che, fra l’altro, in molte osterie, quando si vuole un bicchiere di vino bianco, si chiede un Bianchino e nessun viso pallido si sognerebbe di sentirsi offeso per questo. Ma niente, lui va avanti imperterrito come un don Chisciotte dei bar.

Solo una volta ha tentennato. Eravamo al bancone e un signore, di visibile origine e accento nord africano, ha chiesto al barista «Un Marocchino, per favore». Ho guardato il mio amico come a dirgli «E adesso?». Non ha commentato, ma la sua infelicità era così vibrante che non me la sono sentita di infierire. La sua battaglia continua e finora è riuscito a convertire i baristi che frequenta abitualmente. Lo vedono entrare e domandano «Un Montecarlo?». Lui risponde «Sì» e si siede felice. Onore al suo incrollabile antirazzismo verbale.

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