La bellezza fotografica di Ricordi?, la nuova (da Dieci inverni sono passati quasi dieci anni) commedia di Valerio Mieli passata a Venezia e ora nelle sale, è tutt’altro che fortuita (Mieli nasce fotografo) e men che mai gratuita, perché tutta riconnessa a un discorso sull’evocazione del passato e su quelle sue possibilità falsificanti che insinuano il dubbio sottile e infugabile sulla reale consistenza di ciò che viviamo. Quando commedia sentimentale non significa film «leggero».
Ne abbiamo parlato con il regista.
Stacchi brevi di tempo che si accavallano e si incastrano in una sorta di presente continuo… hai fatto un montaggio di tempi, più che di immagini…
È un modo per restituire nel film una modalità più semplice, perché più simile alla percezione che abbiamo del mondo nel nostro quotidiano, in cui non c’è propriamente un prima e un dopo ma ciò che è nella nostra mente e ciò che è fuori si mischiano, i fatti passati fissati nella nostra memoria sono presenti in noi con la stessa consistenza degli eventi attuali. Ai tempi suoi l’Espressionismo poteva sembrare una velleità, una stranezza, ma ci è più facile comprenderlo ancora oggi, perché il raccontare l’impressione di ciò che incontriamo piuttosto che immaginare come sarebbe senza di noi è un modo per essere più vicino al ragionamento e all’emozione delle persone, è più immediato.
Molti, moltissimi movimenti di macchina interni ai tuoi piani sequenza che nel montaggio sembrerebbero assemblati con intenzione «armonica», musicale.
Tutti i movimenti hanno un senso preciso e che quindi erano previsti in sceneggiatura. Scena di lei che si sbuccia il ginocchio, la macchina si allontana, i ricordi di infanzia si stanno allontanando. Quando lui nel presente le accarezza la cicatrice sul ginocchio la macchina si allontana di nuovo e ricollega la sbucciatura del passato alla cicatrice del presente, cose così. Il fatto che sia un film molto mosso è dovuto al fatto che racconta un flusso mentale che quindi è qualcosa in continuo movimento. In Dieci inverni aprivo una finestra sul tempo una volta l’anno e guardavamo il quadro per un po’, poi la richiudevamo. Questo giustificava la regia «tipo quadro» più statica e chiusa, mentre qui era necessario essere molto più fluidi.
Poco frequenti i piani molto ravvicinati, primi e primissimi piani, che in un film di sentimenti è fatto non comune...
Cercavo ciò che serviva di volta in volta, a volte ricordiamo solo singoli dettagli, a volte l’immagine è più ampia, per esempio c’è una scena di sesso, più animalesca, che ho reso come un turbinio di ricordi confusi, dettagli di una bocca, di una carezza, di un’unghia che si mischiano. Nell’altra, invece, volevo che si manifestassero le diverse nature di lei e lui, e mentre lei se la vive nel presente lui, imprigionato nel passato, inizia il gioco del «Com’era quella volta? Com’eri vestita? Che ti ho fatto poi?», rievocando la loro prima volta. La scena è più romantica e tormentata, e mi è sembrato che servisse vederli entrambi, vedere cosa hanno nella testa sia lui che lei, restando un po’ più larghi. Poi quella è una scena tutta «sbollata», girata con la macchina a mano.. .con uno stile diverso. D’altronde la sfida, ma anche la grande libertà, era cercare di utilizzare tantissimi espedienti narrativi e tecnici differenti, tanti «stili», per raccontare aspetti diversi del ricordo.
Ogni singola inquadratura, anche all’interno della stessa scena, corrisponde a un diverso ricordo, a una ricostruzione parzialmente alterata della realtà, che diventa irraggiungibile, o irrappresentabile, nella sua oggettività…
Tutto il film è un po’ come una fenomenologia generale del ricordo. Ogni scena contiene un piccolo indizio sulla sua natura di ricordo, non mi ricordo il numero di telefono, o com’era quella musica, mi ricordo di una cosa che abbiamo fatto insieme, ma in realtà non eri tu, ogni ricordo è anche un falso ricordo, vero per me e falso per gli altri. È questo che cerca di seguire la regia, come raccontare il ricordo, anche la scena del sogno non è un sogno, come normalmente si racconta nei film, ma è il ricordo di un sogno.
C’è qualcosa che riguarda il senso di perdita, quel qualcosa di sottile che a vent’anni permea l’aria e che la vita poco a poco ti strappa…
A inizio film ci si chiede: «È il ricordo che rende le cose belle? che getta sulle cose quella patina di poesia che sentivamo da ragazzini?». La bellezza delle cose che ricordiamo è solo un inganno della ragione, come pensa lui, o si tratta di guardare il presente con occhi, ancora capaci di «magia», come pensa lei? Il film è un po’ la storia di come l’incontro tra i due sia un reciproco influenzarsi, per cui i cupi ricordi che ha lui dell’infanzia stando accanto a lei cominciano a sembrargli meno tetri, ma quando anche lei cambia, cresce, dice «ho una cosa triste da dirti», lui si spaventa, la certezza che gli derivava dalla sua intangibile felicità viene meno e lui si perde. Lei, ovviamente, grazie o per colpa di lui cresce e diventa quello che è. È un tema che mi affascina, il valore delle persone che incontriamo nel definire ciò che siamo, le mutazioni della nostra identità nel tempo.
Una distinzione che hai sostanziato anche a livello cromatico.
Sono due mondi separati che progressivamente si mescolano sino ad invertirsi. Lui inizia ad avere ricordi della casa di infanzia colorati, felici, mentre lei inizia a ricordare «cose nere», gli uccelli morti e le cose oscure che la sua memoria aveva archiviato. Ogni quadratura aveva una sua palette di colori «personalizzata», indicazioni cromatiche molto precise, perché il colore serve per rendere queste sfumature nell’evoluzione dei personaggi. Ho cercato variazioni che non fossero immediatamente percepibili, come nella scena «dei panni», in cui lei telefona a lui, che inizia satura e termina coi colori slavati, ma non si deve notare. Un po’ come se ora, mentre parliamo, una nube oscurasse il sole e noi intenti a fare ciò che stiamo facendo non lo notassimo, ma il colore generale della scena sarebbe mutato. Ci sono anche molti accorgimenti di suono che vanno in questo senso.