«Cosa può dare più di, letteralmente parlando, chirurgia a cuore aperto sul palcoscenico?». Così, nel 2009, in un’intervista rilasciata al New York Times, Robin Williams rifletteva sulla sua carriera in seguito a un’operazione durante la quale gli era stata inserita una valvola nell’aorta. Il tono – in fragile bilico tra umorismo dell’assurdo e iperserietà – un classico della sua comicità generosissima e altrettanto spericolata.

Non è un caso che il personaggio che, per primo, ha reso famoso Robin Williams fosse un extraterrestre di nome Mork: qualcosa di ET, Williams – mancato lunedì a casa sua, vicino a San Francisco, in seguito a quello che le autorità hanno descritto come un apparente suicidio- l’ha sempre avuto.

Innanzitutto la velocità, assolutamente irraggiungibile, con cui pensava, parlava, si muoveva, cambiava di registro, di personaggio, improvvisava voci, gesti, ti faceva viaggiare tra paesi, emozioni, punti di vista diversi, come sorvolando mille chilometri all’ora un paesaggio politico/emozionale di varietà e profondità insondabili. Tutto questo in un attimo, senza lasciarti, e soprattutto lasciarsi, prendere fiato. Nemmeno quello che lui ha spesso citato essere uno dei suoi maestri, Jonathan Winters, avrebbe potuto stargli dietro.

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Quando lo incontravi per intervistarlo, di fronte ai suoi comedy show, o alle apparizioni live in tv, era quella qualità intenibile, «al mercurio» che ti colpiva di più , che ti lasciava intravedere – dietro al sorriso buonissimo e alla patina sentimentale dei personaggi di alcune delle sue commedie hollywoodiane più famose e lineari- un abisso tutto diverso: esilarante e spaventoso, infantile e cerebralissimo, gioioso e pieno di disperazione. Tutto allo stesso tempo. Perché guardare Robin Williams era sempre un po’ come assistere a un intervento a cuore aperto.

Nato a Chicago, il 21 luglio 1951, e cresciuto in agiati sobborghi residenziali del Michigan e della California settentrionale, Williams era figlio di un executive dell’industria automobilistica. Il suo primo contatto con la recitazione è stato di stampo classico, e include alcuni anni passati alla Juillard School di New York.
Dopo aver partecipato a qualche episodio del programma NBC, Richard Pryor Show, nel 1978 Williams fu scritturato da Gary Marshall, per interpretare la parte di un alieno, in un episodio di Hap py Days. Il suo Mork fu un successo talmente straordinario che il network decise di dedicargli una serie, Mork & Mindy, che andò in onda tra il 1978 e il 1982, e che era scritta/disegnata proprio per accomodare le tecnica d’improvvisazione cara al suo protagonista.

 

Fu quella sit com che gli procurò il suo primo ruolo importante al cinema, quello di Braccio di ferro, nel bellissimo, sottovalutato, Popeye (1980) di Robert Altman – un adattamento della mitica striscia fumetto di E.C. Segar, sceneggiato dall’umorista Jules Feiffer. Williams e Altman avevano in comune il gusto per l’improvvisazione sfrenata. Applicato alla struttura di un musical tradizionale, il loro è un cocktail abbastanza esplosivo, non necessariamente apprezzato dai vertici della Paramount, che giudicarono l’esperienza un mezzo disastro, nonostante il film fosse uno dei maggiori incassi dell’anno e rimanga tutt’oggi un grande favorito dei bambini. In effetti, lo spirito liberissimo, leggero e fantasmagorico che caratterizzava tante delle interpretazioni di Williams sembra particolarmente in sync con quello dei bambini.

Non a caso Spielberg volle affidare proprio a lui il ruolo di Peter Pan, nel suo stranissimo Hook (1991), un altro film frainteso… e la parte del dottore in A.I. Artificial Intelligence (2001). Tra gli altri suoi film più cari al pubblico infantile, Il barone di Munchausen di Terry Gilliam, Jumanji, Mrs. Doubtfire, Patch Adams, i Night at the Museum (il cui terzo episodio uscirà in autunno), e gli animati Alladin (in cui Williams dava la voce al genio della lampada) e Happy Feet.

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Tra i suoi film «adulti» (in cui la sua qualità più manic rimaneva sottesa, sotto la superficie, in minaccioso agguato come un gatto), il primo grande successo fu il film di Barry Levinson, Good Morning Vietnam (1987), in cui Williams interpretava un iconoclasta presentatore della radio dell’esercito Usa nella Saigon del 1960 e per cui ottenne la sua prima nomination agli Oscar. Ne ottenne un’altra, due anni dopo, con L’attimo fuggente, di Peter Weir, nei panni di un insegnante d’ inglese molto controtendenza in un collegio anni ’50. Risvegli, del 1990, interpretato al fianco di Robert De Niro e diretto da Penny Marshall era l’adattamento dall’omonimo memoriale di Oliver Sacks.

È del 1997 una delle sue apparizioni più belle sfumate, nel film per cui vinse l’Oscar di miglior attore non protagonista, Good Will Hunting, di Gus Van Sant, dove era lo psichiatra del giovane genio Matt Damon.
Nonostante la sua grande fama presso il pubblico mainstream, Robin Williams non aveva paura di rischiare su progetti più insoliti, persino dark, come One Hour Photo, di Mark Romanek, Insomnia di Christopher Nolan, e il più recente The Night Listner. In The Butler, ha interpretato il presidente Usa Dwight Eisenhower (mentre nelle Notti al museo è Teddy Roosevelt). Il suo ultimo progetto televisivo è stato la serie The Crazy Ones, andata in onda l’anno scorso sulla CBS.