Tariq Teguia l’avevamo scoperto qualche anno fa con Rome plutôt que vous (2006), presentato alla Mostra di Venezia, un film folgorante, che mescolava con passione spudorata tutte le possibile iconografie sul Maghreb, e i suoi «immaginari «interni» e colonizzati rivelando il talento di un grande cineasta. Poi c’era stato Inland (2008, in gara a Venezia), magnifica narrazione del deserto, il cui orizzonte infinito è quasi impossibile da cogliere nei movimenti più segreti.

Teguia ne aveva afferrato i bordi del visibile, trasformando la bellezza in conflitto del presente. Zanj Revolution, il suo nuovo film, nel CineMaxxi, era perciò molto atteso, anche perché come ha raccontato il regista, è arrivato dopo anni di lavoro e molte difficoltà produttive.
Sin dalla prima immagine dichiara la sua sfida narrativa: un uomo con la macchina fotografica in un luogo deserto, viene circondato da un gruppo di ragazzi col volto coperto dalle sciarpe. Hanno le pietre in mano, pure se non siamo in Palestina ma in un villaggio dell’Algeria.

Di quale rivoluzione si parla? Quella degli Zanj, gli schiavi africani che in Iraq nel dodicesimo secolo si sono ribellati al califfato di oppressione e di sfruttamento? O quelle arabe di oggi? O forse a un sentimento antagonista che attraversa – malgrado tutto – il nostro contemporaneo? Una linea tesa tra paesi e continenti, la macchina dei mercati bisognosa di guerra per la ricostruzione. Iraq e Afghanistan, perché l’Iraq è la nostra «utopia capitalista» sentenzia l’«Americano» Amos Poe nel film.

E i paesi delle rivoluzioni arabe che lottano contro anni di un tacito accordo tra oriente e occidente, il postcolonialismo degli affari e delle manodopera a bassissimo costo, delle ricchezze concentrate e dello sfruttamento diffuso. Ma anche la Grecia distrutta dall’Europa (comunque non si può pensare che sfruttando altrove questo feroce meccanismo torni laddove è cominciato), perché deve pagare il suo essere fuori la linea dei conti europei, di banche e finanze. Siamo nei luoghi delle civiltà millenarie, le origini del mito, eppure la strategia di annientamento appare implacabile.
Da Whitman a Khoury, passando per Gramsci (oggi straordinariamente letto e amato tra le generazioni in piazza in Tunisia), Teguia attraversa i confini di oriente e occidente. Con un omaggio aperto, amoroso a Godard, e al suo cinema politicamente Ici et ailleurs, quindi disturbante, «di parte», antitetico all’ideologia e per questo capace di maneggiare con sensibilità estremista il pensiero filosofico-estetico del mondo.

Cita Alphaville Teguia, e il suo fotografo a volte somiglia Belmondo. Ma anche il cinema indipendente americano degli anni Ottanta di flussi ipnotici punk.
«Cerco dei fantasmi» dice il fotografo che è un giornalista. Il panarabismo e l’utopia delle indipendenze, la cultura araba nella memoria del Tigri e dell’Eufrate, antica e raffinata maestra del mondo contro gli islamismi che impongono la tradizione oscurantista: «L’arte islamica la uso per riempire gli scaffali» commenta laconica la gallerista.

[do action=”citazione”]Beirut è il punto di partenza, ma mai di arrivo, il laboratorio che ha provato a rendere possibile il destabilizzante cortocircuito, occidente/oriente – del resto ci sarà una ragione per cui l’hanno devastata. Beirut «ville-fantôme» (è ringraziato il cineasta libanese Ghassan Salhab), citta-fantasma di una Storia di fantasmi. É lì che arriva Nhalma, palestinese, di ogni luogo e di nessuno. La Palestina chiusa tra i vicoli stretti di Sabra e Chatila, fantasma del mondo arabo che in suo nome agisce e esige martiri, ma che nella «realtà» sembra insopportabile. Un fantasma di antiche paure. [/do]
L’occidente è l’altra riva, il fantasma dei migranti a cui spara addosso, eppure prospera coi conflitti e coi passaggi in barca a rischio di morte. È anche la Grecia dove i ragazzi scrivono sul muro «rivoluzione».

E fuggono dai poliziotti. «Diranno che vogliamo solo più soldi e più lavoro ma sono i soldi che fanno brutto il mondo». Per loro che danzano e ridono e combattono la violenza dei governi, pensare di salvarlo il mondo che va a pezzi è roba da pazzi. Meglio destrutturarlo, come in un’azione di Pollock, rovesciandone i sistemi di funzionamento. Come fa Teguia cercando l’essenza della rivoluzione in un film complesso e stratificato che è una ballata commuovente sulla giovinezza, e sull’innocenza di un’utopia ancora possibile.

Questa rivoluzione si può raccontare soltanto da rivoluzionari, scardinando sicurezze e punti di vista, frammentando e obbligando a nuovi sensi. E arrivando al cuore delle origini di un passato millenario del mondo, alla ricerca di un intreccio e del meticcio che è sempre vincente. In quel punto sospeso di storia e di presente c’è ancora uno Zenja che col sorriso vuole resistere. Come il cinema di Teguia.

Pasolini quei giovani li avrebbe chiamati lucciole, ed è dal suo scritto sulla scomparsa delle lucciole che comincia il viaggio di Vincent Dieutre e del suo Orlando ferito (CineMaxxi). Una storia d’amore, l’amante, Luigi, disilluso dall’Italia, l’incontro con un filosofo, Didi Huberman. Nelle immagini del suo nuovo film, girato a Palermo, il regista francese che con l’Italia dove ha vissuto a lungo ha un legame speciale, e cerca possibilità di resistenza. Dalla dalla prima persona di un quasi diario intimo – cifra che appartiene al cineasta francese – si arriva al film saggio e a una riflessione sul nostro tempo che non offre risposte e nemmeno certezze. Forzare i limiti, e le abitudini delle immagini è per Dieutre una necessità politica, implica uno sguardo che rilegge il mondo liberandolo dai pregiudizi.

Eccolo dunque il presente, scritto sui muri e sui volti degli abitanti con cui il regista parla. E soprattutto all’antichissima madre di tutte le arti: l’arte dei pupi. Un maestro burattinaio mette in scena una nuova versione dell’Orlando Furioso, laddove il celebre protagonista viene salvato da Lucciolino, un pupo che rappresenta l’intera umanità, un Lucciolino-Lucciolina che salva Orlando dalla follia.
Dieutre con tenerezza scatta foto, fa interviste, riprende di nascosto, entra nelle case della gente.

Poi sposta l’obiettivo sui burattini senza riuscire staccarlo.
La seduzione dei suoi film è questo spostamento dello sguardo. Non un «genere» ma la scommessa di catturare altrove la realtà, la mafia o i barconi con le tragedie delle vittime che ogni giorno finiscono nel mare, attraverso un racconto mai dogmatico.Il suo sguardo è politico nella necessità di un’immagine politica, che non coincide col soggetto importante ma col suo dubitare. Che significa mettersi in gioco con passione e tenerezza.