L’ultima volta che i talebani stesero il loro potere sull’Afghanistan, una delle prime decisioni che presero fu quella di mettere al bando la musica. L’odio nei confronti dell’espressione artistica musicale non legata alla recitazione delle sutre del Corano da parte dell’estremismo islamico si fa risalire ad alcune interpretazioni dei testi sacri risalenti al X secolo che però sembravano condannare più i comportamenti illeciti legati alla cultura musicale che la musica stessa. Il disprezzo nei confronti della musica era tale che nel 1996, poco dopo aver occupato Kabul, i talebani distrussero con un carro armato la tomba di Ahmad Zahir, cantante pop detto «l’Elvis afghano», rappresentante del rinascimento culturale del paese degli anni Sessanta e Settanta, morto nel 1979 in circostanze tuttora misteriose. La fama di Zahir, che nelle sue canzoni univa la tradizione musicale locale con atmosfere pop ma guardava anche alla canzone d’autore francese, non è più stata eguagliata da nessun altro interprete. La sua tomba è stata ricostruita e alcuni fan del cantante hanno anche istituito una fondazione a suo nome per tenere viva la memoria dell’artista e conservare il patrimonio musicale laico del paese.

E ADESSO?
Ora che cosa accadrà? Scenderà ancora il silenzio? Sono in tanti a chiederselo, e negli ultimi giorni due notizie sono risuonate in tutta la loro tragicità, prima la probabile nuova messa al bando della musica nel paese da parte dei talebani e poi l’uccisione di uno dei maggiori esponenti del folk afghano, Fawad Andarabi, assassinato con un colpo alla testa dopo esser stato prelevato a forza dalla sua casa. Ma è anche vero che, come hanno dimostrato queste convulse settimane, l’Afghanistan non aveva vissuto quella svolta liberale e quella esplosione culturale che tutti avevano auspicato vent’anni fa e che spesso è stata decantata dai media occidentali più per ottimismo che per amore di verità. L’ombra lunga dell’estremismo è sempre stata una minaccia per chi suonava e promuoveva la musica. La conduttrice televisiva Shaima Rezayee conduceva un programma musicale su Tolo Tv emittente di Kabul nata nel 2004. A soli 24 anni è stata uccisa nel maggio 2005 in un agguato orchestrato da estremisti vicini ai talebani. In questi anni la musica è timidamente tornata, ma la paura non è mai andata via. Ne sa qualcosa anche la prima vera heavy metal band afgana di ragazzi residenti a Kabul, i District Unknown. La loro storia è stata raccontata dal fotoreporter e regista australiano Travis Beard nel documentario Rockabul, girato nel 2015 e distribuito nel 2018. Formati da quattro ragazzi della capitale, i District Unknown si sono preparati studiando su YouTube band come Metallica e Slayer, mettendosi alla prova da musicisti autodidatti, provando in luoghi clandestini e trovando nello stesso Beard un mentore per le loro aspirazioni. Le prime note metal autoctone sono così risuonate a Kabul nel 2010 per un concerto riservato solo a un pubblico di stranieri. I District Unknown sono riusciti a esibirsi all’estero, ma in questi anni, nonostante la presenza americana non ci sono mai state le condizioni per poter radicare una scena locale. Il primo cantante del gruppo già all’annuncio del disimpegno americano del 2011 ha fatto le valige dicendo: «Questo non è più il mio paese. È un campo di battaglia governato dalla droga, dalla mafia e dai soldi». Nonostante la paura, i District Unknown nell’autunno del 2011 sono stati tra i protagonisti di Sound Central, il primo festival di musica leggera organizzato a Kabul da quando negli anni Settanta Ahmad Zahir teneva le sue esibizioni. L’evento si è svolto in maniera semi-clandestina. «Sono stati dati molti soldi alla polizia locale per rendere sicura l’area scelta – ha raccontato Travis Beard -. Inoltre non è stato possibile promuoverlo fino all’ultimo minuto, altrimenti i talebani avrebbero avuto tempo per pianificare un attacco».
Nella scaletta di Sound Central erano presenti alcune band internazionali provenienti da Pakistan, Kazakhstan e Canada e una band di stanza nella capitale afgana come i White City (che in origine si chiamava Taliband), formata da lavoratori stranieri delle Ong.

IN ESILIO
Il nome più di spicco tra gli artisti locali saliti sul palco è stato quello dei Kabul Dreams, una formazione di rock alternativo nata da tre giovani afghani cresciuti all’estero e tornati in patria dopo l’arrivo degli americani. Il gruppo, che canta in inglese, è riuscito anche a pubblicare due album, ma dal 2014 il trio ha nuovamente scelto la via dell’esilio. Questa purtroppo era ed è la prospettiva di tutti i musicisti autoctoni: la speranza di trovare rifugio e protezione all’estero. È quello che è accaduto alla fine anche per i District Unknown che sono riusciti ad avere asilo fuori dal loro paese. Rockabul, il documentario a loro dedicato, è stato infatti distribuito solo nel 2018 quando tutti i membri del gruppo erano al sicuro lontano dalle possibili vendette degli estremisti. Uno dei membri della band, Sulleiman Omar, prosegue i suoi sogni di rock’n’roll e ha fondato a Denver una nuova ambiziosa band heavy metal chiamata Mother of Exile.
Il Sound Central Festival si è tenuto solo per altre due edizioni nel 2012 e nel 2013. Si è svolto però non in un luogo pubblico, ma nella sede dell’Institut français d’Afghanistan, una delle istituzioni culturali più attive in questi anni nella capitale che comunque non è stata risparmiata dalla follia estremista ed è stata colpita nel dicembre del 2014 da un attentato suicida. L’edizione del 2013 del festival ha avuto il merito di dare un volto all’unica rapper donna del paese, Ramika Khabiri, ai tempi diciottenne e studentessa dell’Università di Kabul che ha dedicato le sue canzoni alla condizione femminile, rivolgendosi ai giovani e invitandoli a resistere all’estremismo e a partecipare alla politica attiva.
Ramika ha abbandonato il rap e oggi lavora per un osservatorio di studi strategici e militari, ma ha dato un esempio di coraggio, sfidando pubblicamente tutti gli stereotipi locali sulla condizione della donna.
La scena hip hop locale ha intanto cercato di mettere le radici. La star è Dj Besho, all’anagrafe Bezhan Zafarmal, nato a Kunduz e trasferitosi quindicenne nel 1992 in Germania dove ha scoperto il rap. Nel 2006 ha fondato l’etichetta ANG-Afghan New Generations, lavorando per la tv e la radio afghana. Uno dei suoi maggiori successi è stato Taq Chapako! («Bang! E giù!») un inno in uno stile gangsta rap ispirato a un soldato che è riuscito a fermare da solo sette terroristi che stavano attaccando il Parlamento.
Il soldato ha spiegato di averli semplicemente fermati uno alla volta e il titolo della canzone è la risposta che il militare ha dato a un giornalista che gli chiedeva come avesse fatto a reagire. Dj Besho oggi vive a Londra.

L’ULTIMO RAPPER
L’ultimo rapper che ha resistito a Kabul si fa chiamare Ali ATH e non rivela il suo vero nome per ragioni di sicurezza. Ha fondato il sito darihiphop.com, un archivio digitale di rap afghano. La sua vita è diventata negli ultimi mesi sempre più difficile. «Sono a rischio – ha detto in un’intervista dello scorso marzo -. Guadagno i miei soldi dalla musica e dai video su Youtube. È così che pago le bollette. Se i talebani scoprissero che faccio musica mi ucciderebbero. Non voglio neppure pensarci. Mi muovo poco dal mio quartiere, frequento solo le zone che conosco». Ali ATH ha pubblicato a luglio la sua ultima canzone, Vaccine, ha scelto di rimanere, vuole stare vicino ai suoi amici e alla sua comunità e non si sentirebbe se stesso al di fuori del suo paese, ma nessuno sa cosa riserva il futuro. Gli organizzatori del Sound Central Festival intanto hanno lanciato una campagna online #saveafghanmusicians per raccogliere fondi per permettere agli artisti che in questi anni si sono esposti pubblicamente di espatriare e sfuggire alla vendetta dei talebani. Salvare gli artisti significa salvare l’identità e la creatività di un popolo, ma anche tenere viva la speranza.