Scrive Udo Kittelmann, direttore della Nationalgalerie di Berlino e curatore di Storytelling (Fondazione Prada Milano, fino al 28 settembre), che arrivato nel 2003 per la prima volta in Cina rimase molto colpito dai lavori di Liu Ye perché gli erano sembrati subito imprevedibilmente famigliari. «Non vi era nulla di estraneo ai miei occhi. Mi apparivano come messaggi pittorici sensibili connessi a due mondi spesso ritenuti contradditori».
La biografia di Liu Ye, uno dei nomi di punta dell’ondata di artisti cinesi che a partire dagli anni ottanta hanno occupato la scena globale e anche il mercato, aiuta a spiegare la sensazione registrata da Kittelmann. Liu Ye è infatti figlio di un autore di libri per bambini, che, pur essendo militante della rivoluzione culturale maoista, teneva gelosamente custoditi in una cassa nera nascosta sotto il letto una serie di libri «proibiti». Tra questi c’erano le fiabe di Andersen e i capolavori di Tolstoj: letture e pagine illustrate che hanno contaminato alla radice l’immaginario di Liu Ye. Il padre aveva poi pianificato in modo ferreo la formazione di quel suo ragazzino che si stava dimostrando tanto talentuoso nel disegno. A 10 anni lo aveva affidato a un maestro di disegno, che fino ai 15 lo ha seguito affinando le sue capacità tecniche. Il risultato è quello che aveva sorpreso Kittelmann ai tempi di quel viaggio: trovarsi davanti un artista sospeso in un tempo e in uno spazio geografico indefinibili.
È la stessa dimensione che il curatore tedesco, sempre abilissimo nel mettere a punto dispositivi che sottraggano il visitatore dalla consueta ritualità, ha voluto ricreare per questa mostra approdata alla Fondazione Prada dopo essere stata presentata lo scorso anno presso la Villa Rong Zhai di Shanghai, edificio del primo Novecento restaurato in ogni particolare (le foto del piccolo catalogo si riferiscono a quel suggestivo allestimento).
Negli spazi post industriali dell’ala nord della Fondazione, su muri freddi trattati a cemento, lo Storytelling di Liu Ye si presenta come un esercizio puntiglioso e sistematico di smottamenti culturali. Ognuna delle trenta opere in mostra è frutto di un calibrato equilibrismo; calibrato nella concezione e anche nell’esecuzione, sempre senza sbavature, evidentemente frutto degli scrupolosi insegnamenti del maestro Tan Quanshu. Cina e Occidente, ingenuità e sofisticatezza, illustrazioni per bambini e icone del passato (Miffy e Van der Weyden), natura e rigida geometria convivono con la massima nonchalance nello spazio spesso miniaturizzato delle tele. Ogni quadro è giustamente accompagnato da un testo che ne svela il contenuto narrativo e in questo modo intrappola il visitatore dentro la storia rappresentata, cioè nell’immagine dipinta. Storytelling è perciò un titolo più che mai pertinente, anche se qui la narrazione non si chiude mai, proprio all’opposto della circolarità a cui ci hanno abituato i tanti «storyteller», narratori giulivi che hanno imperversato nel mondo pre Covid. Infatti, a dispetto della precisione esecutiva, una precisione a volte quasi chirurgica, che non lascia spazio a nessuna indeterminatezza, le opere di Liu Ye sono sempre provocatoriamente mancanti dell’ultima parola. Sono storie lasciate in sospeso che si rovesciano sull’osservatore, attivando percorsi mentali non preventivati: immagini perfette per la sala d’attesa di uno psicoanalista.
Certamente l’ordine è la categoria che fa da legante nei lavori dell’artista di Pechino. Liu Ye, dopo aver frequentato una scuola di arts & craft in Cina ha potuto viaggiare in Europa e seguire i corsi all’Accademia di Berlino, e poi stare in residenza alla Rjiksacademie di Amsterdam. È qui che scopre le geometrie di Mondrian, destinate a diventare presenze insistite nei suoi lavori; termini di riferimento che avvicinano i due mondi – l’Europa e la Cina – anziché sancire distinzioni. In Daydream, opera del 1997, un ragazzino con la testa posata sul tavolo sogna tra un quadro che cita Mondrian in formato micro appeso al muro e un libro aperto con i «cento dipinti floreali», immagini anonime realizzate nell’epoca d’oro della dinastia Song (960-1279). «Ad accomunare questi artisti», scrive Kittelmann, «è la ricerca della dimensione spirituale e universale, tesa al “trascendente” in pittura». Il tema della formazione come processo che unisce i mondi riaffiora continuamente nei lavori di Liu Ye: il libro è l’oggetto attraverso il quale questo processo si rende possibile, e così l’artista lo «sacralizza» in opere iconiche, come quella con il volume su van der Weyden, edito da Waanders Uitgevers, rappresentato dall’alto in basso e restituito in tutto il suo monumentale spessore.
Non c’è solo il passato: Liu Ye si sofferma su alcuni miti contemporanei, senza differenza tra Cina e Occidente, indagando sul lato misterioso o scuro che li riguarda: Chet Baker è un’icona immersa in un blu malinconico; Ruan Lingyu, «the goddess», star del cinema muto cinese morta tragicamente suicida nel 1935, è avvolta in una nuvola fuggitiva di fumo della sua stessa sigaretta. C’è anche una Catherine Deneuve dallo sguardo imperscrutabile, ritratta di tre quarti, quasi posasse per un grande maestro fiammingo: ha il cappello a caschetto indossato in Bella di giorno, seduttiva e inavvicinabile nello stesso tempo.
In Storytelling colpisce la naturalezza con cui un artista nato e formatosi in Cina riesce a stabilire una sintonia con motivi radicati nella cultura occidentale. È una situazione che curiosamente ritroviamo in un’altra mostra aperta in questi mesi sempre alla Fondazione Prada: Porcellain Room, un’installazione curata da Jorge Welsh e Luísa Vinhais che esplora il contesto storico, la finalità e l’impatto delle porcellane cinesi da esportazione. Il percorso si compone di tre ambienti, allestiti da Tom Posta Design. Nel primo in particolare sono esposti 45 esemplari del ristretto corpus sopravvissuto delle porcellane cinesi espressamente commissionate dai portoghesi dopo il loro arrivo in Cina nel 1513. Sono i cosiddetti «primi ordini», cioè decorati su commissione secondo iconografie occidentali, tra le quali lo stemma del Regno del Portogallo o il monogramma di Cristo, IHS (ma ci sono anche alcune rare porcellane realizzate per il mercato islamico, con scritte in arabo o persiano). Le forme e lo stile delle porcellane sono tutte d’impronta tradizionale cinese, ma il messaggio veicolato è ricavato da modelli inviati dall’Europa: eppure anche in questo caso la sintesi viene realizzata da ceramisti e pittori con la massima naturalezza, che neanche qualche sgrammaticatura riesce a scalfire. Se ha senso tirare una morale, si può sottolineare come le due mostre suggeriscano l’idea che la globalizzazione avrebbe potuto percorrere altre strade rispetto a quella a dimensione unica e omologante imposta dall’Occidente. La sensazione è che ci avremmo guadagnato tutti.