Tutte le statue sono state rimosse e ne è rimasto solo il piedistallo? Costituito da una base individuata da un certo spessore, il piedistallo è una struttura destinata a supportare qualcosa. Proprio a partire da questa sua qualificazione semantica ha raccolto nella storia un alto valore simbolico rispetto alle forme del potere: come base dell’esercizio della sovranità, del vicariato della divinità, come zoccolo del tempio e del monumento. Si tratta sempre dell’instaurazione di un regime di visibilità che determina in anticipo le relazioni tra poteri assoggettanti da un lato e soggetti obbedienti dall’altro, differenze tra passato e presente, tra superiore e inferiore, tra forte e debole. Diciamo pure che il piedistallo è la costante nel tempo rispetto alle variabili che il potere, di volta in volta, assume.

A distanza di molti anni, l’immagine più efficace che ancora conserviamo della cosiddetta «caduta del comunismo» è il rituale iconoclasta collettivo, che si è abbattuto sulle innumerevoli statue disseminate in tutto l’ex-territorio sovietico (la cosiddetta leninoclastia), che si è accanito sul suo simbolo più eloquente: il Muro di Berlino. Era come se una stessa cerimonia (ma di segno contrario) facesse da contrappunto, con la sua attuale demolizione, a quello che in precedenza era stato l’atto di erezione e consacrazione del monumento. Innalzarlo o demolirlo, in definitiva, fa parte dello stesso gioco, come ha affermato Gerald Raunig.

Non c’è migliore lettura dell’intero fenomeno del video Once in the XX Century (2004) di Deimantas Narkevicius: il reale smantellamento di una colossale statua di Lenin si trasforma nel suo virtuale riposizionamento, di fronte a una folla esultante che applaude, sventola bandiere, fotografa l’evento. Ma ciò che trasmette la televisione di stato lituana si trasforma nel suo opposto speculare attraverso un montaggio «rewind». Così, intervenire con un gesto simile da parte di Narkevicius nell’immagine di quella che già voleva essere una «rivoluzione rewind» (come l’ha definita Habermas) implica un cambiamento nell’ordine del senso, apre a un controtempo. Affermare che il piedistallo è vuoto significa dunque lasciare sempre disponibile quello spazio a una «riserva d’essere», alle possibilità di vita che può esprimere, a un virtuale per altri sviluppi. Dunque si tratta di concepire il «socialismo» non tanto come un’eredità quanto piuttosto come una cosa che c’è e che manca da sempre. Ecco il fantasma, allora, come visibilità dell’invisibile, come qualcosa che c’è senza esserci. Come ha scritto Derrida «un fantasma non muore mai ma resta sempre a venire e a rivenire». Di fatto il socialismo non aveva preso, sin dall’inizio, le sembianze di uno spettro? Uno spettro che allora si aggirava per la vecchia Europa e che adesso continua ad apparire nel mondo, senza mai cessare di ossessionarci? Questa assenza è qualcosa che poggia perfettamente sui piedistalli che Vyacheslav Akhunov colleziona e registra già nel 1978. In un progetto grafico di otto tavole, fissa trentadue basi monumentali (raccolte in diverse città sovietiche, da Mosca a Tashkent) che sono le uniche varianti di una stessa statua che risulta però, temporaneamente, rimossa. Lenin se n’era già andato – «al magazzino, alla sauna, a comprare la vodka, al congresso di partito», dice ironicamente Akhunov – lasciando vuoto il suo basamento. Il socialismo, anche sotto la sua presunta realizzazione storica, non è stato altro che un fantasma – qualcosa che avrebbe potuto essere e che non è stato, qualcosa che non abbiamo mai posseduto perché ancora deve aver luogo.

«Ciò che chiamiamo ‘Est’ è un museo della storia a cura dell’Ovest», ha scritto recentemente Boris Buden, quando nel 2011-12 quella storia è stata sul punto di ripartire, minacciando di sfuggire a quel deposito di rovine post-sovietico in cui per anni è stata confinata. La cosiddetta «transizione verso la democrazia» dei paesi ex-socialisti è coincisa, di fatto e non per caso, con la musealizzazione dell’Est, come se si trattasse di un suo ovvio correlato.

Allo smantellamento dell’Unione Sovietica ha fatto seguito, infatti, quello delle vicende del comunismo. Lo sviluppo di un neoliberismo tanto illimitato quanto violento si univa all’emersione di nuove oligarchie orientali fondate su ritorni nazionalistici, neointegralisti, neofeudali. La risposta della popolazione al profondo disorientamento che l’ha colpita con l’introduzione del regime proprietario liberista e la ricostituzione del dominio di classe, è stata definita negli anni recenti come «nostalgia progressista», oppure «ostalgia», secondo il neologismo tedesco, o come altro la si è voluta chiamare. Si è trattato sempre e comunque di uno stato di forte disillusione che adesso portava a rimpiangere la perdita del passato (che veniva presunto tale) e a mettere in discussione le ragioni che conducevano fuori da quel passato stesso.

Molte mostre sulla scena artistica post-sovietica che si sono tenute negli ultimi anni in occidente hanno recuperato questo concetto di nostalgia antagonista, non retrospettiva ma in-prospettiva, che aveva trovato in un libro di Svetlana Boym del 2001, The Future of Nostalgia, il proprio referente teorico più o meno diretto. Forse, questo immaginario nostalgico è stato accolto favorevolmente in occidente per la passione che quest’ultimo nutre da sempre per le rovine, per il passaggio e la vanità del tempo. Ma oggi, con l’inasprimento ovunque delle condizioni economico-politiche e delle forme di controllo, anche l’Est non risponde più al cosiddetto capitalismo di stato con una sorta di «sentimento» (per quanto costruttivo) ma con la ripresa delle proteste e dei movimenti organizzati. L’Est, a venticinque anni della caduta del Muro di Berlino, intende ridiscutere il nuovo contratto che lega società e potere.