Il 27 aprile 1899 fu inaugurata a Firenze, in Orsanmichele, la cosiddetta Lectura Dantis ossia la pubblica lettura e interpretazione di un canto della Commedia, affidata di volta in volta al dantista di turno. Non che prima fossero mancate simili iniziative, e basti pensare alla pubblica esposizione del Boccaccio in Santo Stefano in Badia o alle letture promosse nel Cinquecento dall’Accademia Fiorentina. In senso moderno però, come frutto di una nuova temperie di studi legata anche alla fondazione delle società dantesche in Germania, Gran Bretagna e Stati Uniti prima, e poi anche in Italia, la Lectura prese piede alla vigilia delle fluviali celebrazioni del 1900: anniversario dell’inizio giubilare del viaggio dantesco. Molto presto l’iniziativa fiorentina trovò accoglimento in altre città della penisola più o meno direttamente legate al nome del poeta (Genova, Ravenna, Milano, Roma, Verona). Tratto comune alle lecture era la ricerca dell’unitarietà di ogni singolo canto, costantemente perseguita quasi che questa caratteristica ne certificasse in qualche modo lo spessore valoriale. E tuttavia l’esaltazione della monade non poteva comunque rifiutare, e spesso non rifiutava, l’aggancio con i canti prossimi a quello commentato, per evidenziare caratteristiche o tematiche comuni che il poeta aveva ritenuto meritevoli di una maggiore attenzione spalmandole su più tappe della Commedia. Né mancava l’occasione di connettere il singolo canto con quelli topograficamente affini delle altre cantiche del poema, tratto che sarebbe comunque saltato agli occhi anche del lettore più svagato (e che negli ultimi tempi ha alimentato la pratica anglosassone delle vertical readings).
Questa tessera di storiografia critica è una delle molteplici chiavi d’accesso che Roberto Antonelli offre al lettore per avviarlo a una riconsiderazione strutturale del capolavoro dantesco in Dante poeta-giudice del mondo terreno (Viella, pp. 275, € 27,00): una raccolta di contributi in parte già editi, in parte rivisti, in parte del tutto nuovi che mette sul piatto alcune stimolanti prospettive esegetiche. E si può partire dal richiamo a un aureo saggetto di Harald Weinrich (La memoria di Dante, 1994), in cui il filologo tedesco rimarcava la straordinaria capacita programmatica del poeta, ben conscio fin dai primi canti dell’Inferno di chi e che cosa si sarebbe parlato più avanti. Per fare questo, Dante fece ricorso a strategie mnemotecniche note e diffuse al tempo, e tipiche della retorica antica, affidando a una topografia per così dire giudiziale l’organizzazione dell’aldilà. Come spiega Antonelli, se «la Divina Commedia è un percorso mnemonico per tre grandi “luoghi” (le cantiche), a loro volta suddivisi in altri “luoghi”, occorreva che l’autore disponesse a priori di un piano dettagliato dei luoghi, dei personaggi e delle azioni, degli incontri e dei racconti» (p. 34).
Questa organizzazione di spazi e personaggi (che spiega, fra l’altro perché Stazio, già destinato nel piano dantesco alla definitiva redenzione, non stia nella «bella scola» del Limbo) non può che fondarsi su un sistema retributivo del quale giudice e garante è il poeta stesso: «Nella Commedia (…) la rappresentazione dei vizi e delle virtù secondo l’ordine dei castighi e dei premi e l’arte mnemonica si saldano in un sistema organico che assegna ad ogni peccato o virtù, ad ogni sentimento umano, un ruolo e una funzione in una scala gerarchica necessariamente precisa». Naturalmente, la giurisdizione dantesca non è avulsa dal sistema di pensiero del suo tempo, ma è un recinto in cui il poeta si riserva ampi margini di discrezionalità, impartendo pene e castighi, o al contrario rimeritando le anime sulla base di una valutazione frutto della propria esperienza personale ed esistenziale.
L’impalcatura macrotestuale chiama in aiuto inevitabilmente anche lo status di poeta, per cui Dante dissemina la Commedia di tracce stilisticamente allusive utili a suturare e a fare i conti coi propri vissuti di rimatore sia quanto al modus sia quanto alla speculazione (esemplare in tal senso la teoria di richiami cavalcantiani, vero banco di prova dell’itinerario poetico dantesco).
Tale complesso sistema, ben individuato a suo tempo da Gianfranco Contini, si intreccia con il duplice statuto che nel poema, a norma degli studi di Singleton e dello stesso Contini, vede muoversi Dante sia come personaggio agens, coinvolto emotivamente e in prima persona nelle vicende narrate, sia come poeta auctor, giudice supremo a posteriori di quelle stesse vicende. L’attrito tra la dimensione mondana dell’agens e il giudizio definitivo dell’auctor si consolida, a norma questa volta degli studi di Auerbach (e prima ancora dalla dantesca Epistola a Cangrande), sulla dimensione figurale dei personaggi: nei tre regni ogni anima rappresenta il completamento, la realizzazione di quanto in vita appariva solo provvisorio e transeunte, figura cioè di ciò sarebbe stato dopo la morte. È una forma di drammatizzazione estrema che finisce con l’irretire lo stesso lettore, non di rado chiamato in causa dal medesimo auctor, facendolo reagire in simbiosi con l’agens, di fronte alla sterminata casistica umana dipanantesi tra le terzine del poema. Ed è anche una delle ragioni dell’infinita ri-proponibilità esegetica della Commedia.