Il crollo, a Genova, del ponte Morandi, avvenuto il 14 agosto del 2018 causando 43 morti, è, per i molti autori di un interessante “libricino” (A cura di E. Piccardo, Genova il crollo della modernità, manifestolibri, 2020, pp.127, euro 12), l’occasione per una riflessione severa sul senso, o meglio sulla caduta di senso, dell’ideologia e dell’utopia della modernità.

Perché, spiegano, il Ponte rappresentava un simbolo dell’ottimismo verso il futuro in una fase storica, quella del dopoguerra e della rinascita italiana, dove ancora l’architettura (a Genova: il Museo d’Arte contemporanea del Sindaco-tranviere Cerofolini, il porto vecchio di Renzo Piano, la Facoltà di Architettura di Gardella) simboleggiava una società in fase di riscatto e proiettata verso il boom economico.

Massimo Ilardi ci racconta, sotto forma di una personale memoria, la trasformazione della città ancor prima della costruzione del Ponte e poi la sua scoperta, prima del ’68, della città operaia: Genova era l’Ansaldo, il Porto, i carrugi e il mare non si vedeva da nessun punto della città. Poi la costruzione del Ponte, una modernizzazione ritenuta necessaria per unificare le fratture di una città che lentamente cambiava il suo volto fino all’attuale declino. Questo stesso declino che veniva emergendo in tutta l’Italia dove, dice Canevacci, alla tradizionale narrazione sulla bellezza artistica e del buon gusto dei cibi, subentrava l’immagine di un’Italia crollante da nord a sud per frane, smottamenti, alluvioni.

E così al crollo del Ponte si è associata un’immagine di morte, perché il Ponte era il simbolo di Genova. Immagine subito rimossa, ci dice Piccardo, da una frenetica e ossessiva narrazione mediatica: da quella della sua estetizzante demolizione sotto i fari dei giornalisti, telecamere e fotografi, quasi un voyeurismo catastrofico (Lavarello), a quella frettolosa (e forse scialba) della sua ricostruzione che ha fatto parlare di un “Modello Genova”, espressione pragmatica di un’efficienza governativa da esportare ad altre situazioni in stato d’emergenza.

Dal punto di vista urbanistico ciò che manca è la cronica e totale assenza di una visione del futuro di una città che fu industriale per eccellenza, afferma Vergano, cui si è cercato di rimediare con la promozione di aree di trasformazione urbana, residui industriali non marginali nei quali la cosiddetta rigenerazione sottendeva processi di valorizzazione immobiliare.

Genova è una “città a rischio” per le diverse e numerose minacce ambientali, tra le quali il dissesto idrogeologico del territorio, e il Prg del 1959 ha svolto il ruolo di non “compromettere” i meccanismi di formazione della rendita fondiaria. Disordine urbanistico parzialmente corretto dal piano del 1980 e dal successivo del 2011, entrambi però incapaci orientare il processo di trasformazione della città.

L’inatteso fa saltare gli equilibri urbanistici e sociali: prima la tragica alluvione del 2011, poi il crollo del viadotto Polcevera del 2018, quasi un risveglio, sostiene Piccardo, da un sogno ormai impossibile di continuità che nasconde il tentativo di rimuovere la necessità di fare i conti con una gestione della città tragicamente sbagliata.

In tal senso la ricostruzione di Genova non può limitarsi al Ponte ma dovrebbe abbracciare un più ampio progetto di ricollocazione all’interno dello spazio europeo, spiega Acquarone dopo un dettagliato esame dei flussi di merci che fanno della città ligure quasi l’unico ed esclusivo porto italiano.
Interessante è anche il confronto che Emiliano Ilardi fa con il terremoto di Lisbona del 1775 perché anche allora la catastrofe (apparentemente solo naturale) ebbe effetti devastanti per effetto dell’attività antropica (dominio sulla natura, sfruttamento del suolo, urbanizzazione selvaggia).

In sostanza il filo conduttore che guida tutti gli autori del libro è che il Ponte rappresentava un’opera d’arte produttrice di paesaggio e bellezza e che il suo crollo è una metafora della più ampia situazione di crisi (anche architettonica e paesaggistica) nella quale siamo costretti a vivere (Mandraccio) dove l’emergenza è diventato una condizione quotidiana e ricorrente del Bel Paese. Tutto il contrario delle premesse e promesse della modernità secondo cui la tecnologia salvifica avrebbe risolto qualsiasi problema.