Si deve fare grande attenzione al documentario polacco con la sua storia che getta lampi sugli eventi del paese, non solo quelli palesi, ma soprattutto quelli occultati. Una tradizione che in alcuni periodi si dimostra ben più efficace dei film di finzione, un ruolo diventato pilota anche per alcuni registi di finzione da Jan Lomnicki, a Marek Piwowski, il celebre regista che neanche riuscì a portare a termine un film capolavoro come La crociera, a Kieslowski. A metà degli anni ’70 i documentari di Kieslowski erano stati una scoperta stilistica stupefacente, poiché riusciva a demolire tutto un apparato burocratico con la bilanciata forza di ironia e senso morale: non si sa come riusciva a far emergere tutta la banalità che l’autoritarismo, la cieca burocrazia esprimevano. Era uno stile inimitabile che neanche i successivi lungometraggi ben più famosi hanno mai raggiunto. Guarda nella stessa direzione Marcel Lozinski, nato a Parigi nel 1940, e tornato in Polonia con la famiglia subito dopo la guerra. Il Festival dei Popoli dedica una personale a Marcel Lozinski che oggi è oggi a capo del dipartimento di documentario della scuola di Wajda e al figlio Pawel diventato famoso fin dal suo esordio. Il titolo della sezione «Father & Son: un viaggio nel cinema» è un percorso di circa quarant’anni che ci mostra intanto una interessante autonomia dell’accademia del documentario esploso internazionalmente a metà degli anni ’70, la stretta degli anni ’80 di emergenza politica e di straordinaria ricchezza per il cinema e poi con la caduta del muro – passaggio che si nota evidente in Pawel – il passaggio dell’attenzione dai gruppi e dalle situazioni collettive, agli individui con le loro storie private. Il titolo della personale si ispira direttamente a due film, uno realizzato dal padre e l’altro dal figlio: Ojciec i syn w podrózy (Padre e figlio in viaggio) di Marcel Lozinski e Ojciec i syn (Padre e figlio) di Pawel Lozinski), il viaggio verso Parigi dove nacque Marcel, che al festival di Cracovia di quest’anno sono stati considerati dalla giuria un unico film per l’intreccio dei due punti di vista e hanno vinto il Corno d’oro, primo premio del festival. Marcel viaggia con il figlio in camper verso Parigi, la città dove è nato e ricorda la tragica morte della madre e le sue scelte che hanno influenzato anche la vita di Pawel. Il film è un’occasione per confrontare ricordi e considerazioni. Se torniamo al fatidico 1980, un anno chiave per la Polonia e Solidarnosc, dovremo considerare quello che ci viene mostrato e quello che fu censurato all’epoca. Marcel che apparteneva al gruppo produttivo di Wajda fin dagli anni ’70 era tenuto sotto controllo e solo quattro film verranno distribuiti negli anni ’80 (usciranno solo dopo il ’90) con un ritorno da nomination all’Oscar: 89 mm from Europe, ossia lo scartamento ridotto delle linee ferroviarie europee rispetto a quelle sovietiche, 89 millimetri come un abisso, 12 fantastici minuti di cinema. ci porta un magnifico esempio di documentazione in fabbrica: non sono le grandi officine di Danzica occupate, in Prova microfono (1980) è una fabbrica di cosmetici dove il responsabile della radio interna ha deciso, oltre che trasmettere la musica a richiesta, di chiedere alle operaie: «cosa significa per te la codirezione della fabbrica?» domanda assai delicata in un paese comunista dove ognuno dovrebbe essere padrone dei suoi strumenti di lavoro, ma dove le risposte appaiono alquanto subalterne («io faccio quello che mi dicono di fare», «essere puntuali», «fare attenzione che le etichette siano attaccate dritte», «a me sembra che la direzione decida tutto»). Poi si passa alla parte più divertente, quella dove, riuniti attorno a un tavolo i dirigenti esaminano l’ipotesi di trasmettere le risposte via radio e, mentre l’idea del programmatore è quella di dimostrare che tutti hanno diritto di parola inizia un vario sfoggio di retorica per bloccare l’iniziativa, ora confondendo i piani, ora opponendosi categoricamente («è eccessivo dire che gli operai sono i proprietari, la sicurezza non funzionerebbe più»). Una rapida lezione di storia ben congegnata che si affianca ai film girati ai cancelli di Danzica o proprio a quel Robotnicy 80 uscito dalla scuola documentaristica che raccontava la prima linee. Le retroguardie invece sono altrettanto importanti per capire: ed è raccapricciante I testimoni girato nel 1987 un vero documentario dell’orrore che inizia con una casa maledetta a Kielce, la casa degli ebrei trucidati non dai nazisti, ma dagli stessi polacchi e che ancora se potessero li lapiderebbero, come successe in un giorno qualunque del ’46, un anno dopo la guerra. Una casa d’angolo, grigia, deserta, che si erge come un monumento. «Molti dicono che gli ebrei non sono uomini» dice qualcuno e una megera racconta come se l’avesse visto che il sangue dei bambini cattolici rapiti serviva per fare il pane azymo («è il loro segreto» afferma), la scintilla che fece scattare la strage di ben quarantadue persone. Rincara la dose chi afferma che da bambini non si poteva non sputare per terra al passaggio di un ebreo. Tutti assaltarono quella casa, tutti gli operai con gli strumenti di lavoro, anche una portinaia con un’ascia, la milicja in testa. Tutte le strade erano coperte di sangue. Quando si parla dell’antisemitismo in Polonia dopo aver visto I testimoni sappiamo che non di sole parole si tratta. Altra lezione di storia: la manipolazione in Practice Exercice (esercitazioni pratiche, ’84) dove gli studenti della scuola di documentario fanno delle riprese per strada per chiedere cosa la gente pensa della gioventù. E allora vediamo che anche qui nessuno vuole parlare per non compromettersi, le frasi sono amare, un giovane («non so niente, sono normale») che mette la mano davanti all’obiettivo ha dei tagli sui polsi, un’altra è troppo concentrata dalla disperazione della sua sopravvivenza, un tipo afferma che: «ogni risposta potrebbe essere giudicata troppo negativa o troppo positiva. Quale risposta vuole?». E infine, al montaggio, si mostra come ci sia la possibilità di manipolare tutte le risposte, mostrando solo volti sorridenti, cancellando ogni elemento di disperazione, di fede, con un trascinante commento musicale che non lascia dubbi (una grande lezione di montaggio per ogni regime, compreso lo stile Mediaset).
Pawel Lozinski, classe ’65, viene dalla scuola di cinema di Lodz, allievo di Kieslovski, ha partecipato alle riprese di Tre colori. Bianco ed ha portato a termine il progetto del maestro Cento anni di cinema, il cinema polacco dal punto di vista degli spettatori, che si interroga su come il cinema può costruire una memoria collettiva. La sua attenzione alle storie personali, spesso di solitudine è un riflesso anche del suo stile di lavoro con mezzi leggeri e troupe ridotta. I suoi lavori hanno ricevuto film dall’inizio una quantità di premi, dall’esordio Birthplace (’92) Grand Prix a Marsiglia, Taka Historia  vincitore del festival di Lipsia nel 1999, fino all’ultimo trionfo a Cracovia del viaggio con padre. Continua anche idealmente la filmografia paterna con il tema della memoria e degli ebrei con l’episodio Miedzy Drzwiami (tra le porte) del film collettivo Borders(2004) e Inwentaryzacja (Inventario, 2010).
Il passaggio da una generazione all’altra è forse contenuta in Tutto può accadere (1995) dove il piccolo Tomek Lozinski (un altro figlio di Marcel), vola sul suo monopattino nel parco e si ferma a parlare con i vecchietti seduti sulle panchine. La sua curiosità spazia su ogni cosa, ma c’è di più. Dodici anni dopo in A gdyby tak sie stalo (Se succcede, 2007) Tomek torna nello stesso parco e il bambino che era e il ragazzo che è diventato si guardano in faccia e confrontano i loro pensieri.