Ha scritto Mike Zwerin, critico jazz con il dono della chiarezza divulgativa che non indulge mai alla banalità, che il suo modo di concepire la musica ha fatto sì che abbia «reinventato la chitarra, così come Louis Armstrong fece con la tromba». Sal Salvador, chitarrista bebop e didatta ha precisato invece che è «stato per la chitarra quello che Art Tatum è stato per il piano». Lui era Django Reinhardt. Chitarrista manouche nato a Liberchies, Belgio, centodieci anni fa, il 23 gennaio del 1910. Prima jazzstar europea (sia pure nello specchio riflettente e deformante al tempo stesso della categoria pseudo razziale degli «zingari», mai considerati del tutto «europei») a incontrare favori di pubblico e critica in un mondo tutto costruito a immagine e somiglianza dei favoriti del jazz afroamericano. Tuttalpiù «in visita» in Europa, non certo europei. E Americans in Europe, come dice il titolo di un celebre disco, ce n’erano stati tanti, nel periodo tra le due guerre, mietendo successi notevoli e scansando d’un pelo le atroci dittature che dopo il primo conflitto mondiale si erano abbarbicate al potere con ferocia discriminatoria in Spagna, in Portogallo, in Italia, in Germania. Spesso incontrando sui palchi proprio Django Reinhardt: come ad esempio Coleman Hawkins, padre del sax tenore e mentore del bebop, o lo stesso Louis Armstrong, o Benny Carter, Bill Coleman, Rex Stewart, Barney Bigard.
SENZA PENSIERI
Come ha acutamente scritto un musicologo e chitarrista esperto di stile manouche come Roberto Colombo, Reinhardt in fin dei conti potrebbe essere perfettamente descritto rubando le parole alle pagine del racconto Il persecutore di Julio Cortazar, dedicate a Charles «Bird» Parker, fatta la tara sul fatto che, a differenza di Django, Bird era tutt’altro che un analfabeta musicale. Dunque Django il mostro di velocità con la mano menomata che «pur dotato di enorme intuizione, sia molto, ignorante, molto primitivo. Un personaggio che non pensi, un uomo che non abbia pensieri, ma solo sensazioni». Lo stereotipo stesso dello zingaro, incrostato di tutta la feccia vischiosa e rassicurante, per il mondo piccolo borghese, dell’«esotismo». Tanto più infestante e pericolosa, questa categoria, più l’«altro» viene considerato una sorta di male interno necessario per legittimare i propri deliri rancorosi: vedi alla voce «ruspa» di Salvini, piccolo borghese nominato sul campo (nomadi) Capitano degli Sgombri. Certo, se ha uno strumento in mano, lo «zingaro» diventa un prodigio di «naturalità musicale» sorridente, un essere «senza pensieri» che almeno così non ruba e non cerca di fregarti, ma t’incanta con quel mare veloce di note che gli sgorgano dal cuore. Ci risiamo, il mito del «musicus naturalis». Invece quello degli zingari musicisti è un caso a dir poco eclatante di «ius culturae» applicato ai casi specifici: soltanto che le regole di acquisizione di competenze tecniche sugli strumenti, essenzialmente quelli a corda, competenze spesso strepitose, meno che mai possono essere il frutto di un «dono naturale». Sono frutto di osservazione e trasmissione orale sin dalla tenera età. Come in tutte le musiche «popolari» delle quali abbiamo perso il senso. Pratica culturale esattamente come quella dell’imparare il solfeggio guardando un foglio e sillabando note.
Usanze diverse, esiti sostanzialmente simili: suonare bene, spesso benissimo. Se poi hai i geni dalla tua e una caparbietà a dir poco trascendentale, e sai superare tutti gli ostacoli che la vita ti ha presentato su un vassoio infetto, ad esempio una menomazione fisica invalidante a una mano, quella che tiene gli accordi, allora diventi Django Reinhardt. E magari sai anche dipingere bene. Gli zingari, è vero, con la musica c’entrano parecchio, e da tempi storicamente così lontani da apparire come una luce fioca, dimenticata, da rinforzare con l’apporto di altri fuochi rischiaranti storico- antropologici: ad esempio rammentando che non sono un gruppo «etnico» omogeneo, ma un insieme di genti indo-melanidi e ariane, veddide e mongolide, originariamente stanziate nella zona nord-occidentale dell’India. Stirpi diverse, ma sbrigativamente assunte come degli incontrollabili «fuori casta» e «impuri» complessivamente stigmatizzati nella stessa etichetta per un motivo ben preciso: praticavano tutti l’artigianato ambulante, anche raffinatissimo, e le arti, dunque anche la musica. Gente con cui era facile prendersela, come capri espiatori. In un poema epico persiano del Mille si parla di 10mila musicanti zingari che sarebbero stati ma inviati dal sovrano indiano in Persia per «rallegrare il popolo». Notizia che ha antecedenti anche nelle cronache dello storico arabo Hamzah d’Ispahan. La stessa parola «rom» deriverebbe dal sanscrito «dom», che ha anche il significato di «musicista popolare». Anche in persiano dom o domb significano «musicista del popolo». In hindi, poi, i «fuori casta», detti «dom», erano coloro che vivevano di musica e di danza. Django Reinhardt nasce da famiglia Sinti alsaziana, manouche di origine germanica, patronimico diffuso in Francia tra i capi carovana dei gruppi zingari attestato già nel Cinquecento. È quasi impossibile ricostruirne la genealogia esatta, ma è un bel segnale che in lingua romanì il nome che gli viene dato, Django, significhi «Io risveglio»: un modo per rimarcare che dopo secoli di migrazioni spesso forzate e di necessità (e in mezzo alle guerre sanguinose che laceravano l’Europa) a quel punto la famiglia aveva trovato dove fermarsi. Il «secondo risveglio» Django lo deve mettere in pratica a diciotto anni, quando l’incendio del suo carrozzone gli lascia in eredità due dita saldate, e una gamba rigida. Due anni per riprendersi, e per imparare a inventarsi di nuovo gli accordi sfruttando ogni appiglio possibile: il pollice sopra il manico, le due dita ritorte. Due anni di esercizi e ascolti di dischi di jazz, e poi l’invenzione di un unicum: la velocità radiante del due quarti zingaro, simile a quella del bluegrass, applicata agli standard jazz ascoltati e riascoltati, non al vals musette.
EQUIVOCI E TRIONFI
Nel ’34 l’incontro con il violinista Stéphane Grappelli, il suo opposto. Educato formalmente alla musica, approccio classico: assieme, una bomba di dinamismo, col Quintette du Hot Club, due chitarre ritmiche, un basso, violino e chitarra sghemba del nostro a volare sulle biscrome. L’esempio del duo Eddie Lang-Joe Venuti (lì un italo americano e un nero, qui un italofrancese e uno zingaro!) diventa presto un «altro» inclassificabile: è nata la chitarra jazz con un nuovo vocabolario e una nuova sintassi dell’improvvisazione. Accenti irregolari, note ribattute, note singole e ottave alternate, legati a velocità impossibili, vibrati ronzanti, accordi morbidi e laschi alternati ad accordi puntuti, aspri, tutti spostati sulla predominanza dell’effetto percussivo. Il decennio d’oro è tra il ’35 e il ’45: nel mezzo c’è la guerra, la caccia agli zingari dei signori con i teschi sulle divise nere, ma Django riesce a sopravvivere anche nella Parigi occupata. Nel ’46 sbarca in America, l’ha chiamato Duke Ellington per un tour da decine di date. Si stimano e si annusano da tempo. Quando scende dall’aereo, è convinto che ci siano schiere plaudenti di fan, non s’è portato neppure la chitarra, convinto che gli sarà donata appena sceso tra le Stelle e Strisce. Non è così, gli Usa prima alzano il sopracciglio del sospetto, poi tributano misurati successi a chi arriva dalla Vecchia Europa. Saranno dunque trionfi ed equivoci, sorrisi e incomprensioni storiche: Django non legge la musica, il Duca gli ritaglia spazi dedicati che Django occupa con il suo approccio da horror vacui applicato alla musica non sempre adatto alla scintillante matassa cromatica di Duke fatta di vuoti e pieni. Dopo l’America, Django conoscerà altri successi imbracciando con coraggio la «nuova» chitarra elettrica usata anche nel bebop, e sarà anche in Italia. Ma se ne andrà molto presto, nel ’53, a quarantatré anni. Nel ’56 John Lewis, impeccabile mente del Modern Jazz Quartet, gli dedica un brano che intitolerà tutto il disco del ’56: Django. Costruito come un severo tombeau in omaggio al Principe Jazz degli Zingari.