Il volume di Chiara Volpato – Psicosociologia del maschilismo, Laterza, Bari 2013, pp. 163, euro 12 – docente di Psicologia sociale all’università di Milano-Bicocca, propone un percorso di lettura multidisciplinare in quattro sezioni che analizza e denuncia il funzionamento sfuggente e onnipervasivo del maschilismo attuale che, almeno nei paesi occidentali, ha saputo trasformarsi per rendersi meno visibile ma proprio per questo ancora più efficace.
Ad un excursus storico sul predominio maschile segue un’analisi dei processi psicosociali su cui si basa il maschilismo, specialmente le «modalità sottili» attraverso le quali vengono imposti e interiorizzati stereotipi e ruoli di genere. Il nucleo più interessante è però nel terzo capitolo, in cui si illustrano le pratiche di delegittimazione dell’autonomia femminile che conducono, come descritto nel capitolo successivo, ad una sottorappresentazione delle donne negli ambiti del lavoro, della politica, dei media.
Com’è possibile, dunque, che le donne, a fronte del raggiungimento di migliori risultati scolastici e migliori indici di produttività, restino incollate allo sticky floor, il pavimento appiccicoso dei primi gradini della scala del successo sociale e materiale, penalizzate da salari ridotti rispetto agli uomini, quasi sistematicamente escluse dalle posizioni apicali in campo professionale e dalla dirigenza dei partiti politici?
Secondo Volpato, una prima possibile spiegazione risiede nel fatto che le donne per prime non hanno gli strumenti culturali per difendersi dal sessismo moderno, che spesso si manifesta come «sessismo benevolo», ossia attraverso quell’insieme di convinzioni all’insegna della misoginia paternalistica, lo «women are wonderful effect», che attribuisce alle donne una serie di caratteristiche (remissività, altruismo, empatia) che rimandano all’ambito della cura e quindi alla sfera domestica, allontanandole inevitabilmente da quella pubblica. L’interiorizzazione di queste convinzioni conduce le donne all’autoesclusione dallo spazio pubblico, senza che abbiano spesso nemmeno la percezione delle discriminazioni subite. Analogamente, «l’egemonia della cultura dell’oggettivazione produce e rafforza la disparità di genere nascondendola sotto il mantra della libera scelta», illudendo le donne di potersi affermare con le armi spuntate dell’auto-oggettivazione.
Tutto ciò non significa naturalmente che il «sessismo ostile», ossia il maschilismo aggressivo e violento, sia scomparso. Al contrario, in Italia soprattutto, sembra di assistere ad una sua recrudescenza, riconducibile, almeno in parte, proprio ai progressi dell’emancipazione femminile, che suscita la marcata ostilità di una componente della popolazione maschile. Tuttavia, dove il gender gap, come nel caso italiano, è maggiore, e la violenza sulle donne è trattata in termini securitari, le donne tendono a leggere nel «sessismo benevolo» l’unico rifugio al «sessismo ostile», nella convinzione – errata – che sessismo «ostile» e «benevolo» non possano convivere nella stessa persona.
È proprio qui che andrebbe iniziata invece una battaglia culturale, partendo dall’assunto di un continuum tra comportamenti «estremi» e comportamenti «più sottili» di sessismo, che «comincia con forme di oggettivazione della figura femminile, prosegue con la pornografia violenta, si traduce in prostituzione, degenera in sopraffazioni, stupri, femminicidi».
Volpato, storica di formazione, ricorda a questo proposito il triste primato dell’Italia nell’elaborazione di un sessismo «moderno»: dalle suggestioni pseudoscientifiche di Lombroso, a quelle letterarie e dandistiche di D’Annunzio, fino alla mistica fascista e all’influenza della Chiesa, l’Italia si configura come un vero e proprio «laboratorio sociale del maschilismo», in cui la mascolinità tradizionale segna una stagnazione sostanziale anche attraverso i cambiamenti sociali del secolo scorso. Significativamente, è proprio l’Italia, tra i paesi occidentali il più restio a riflettere criticamente sul proprio passato, che si rivela meno pronto a mettere in discussione le proprie certezze simboliche.
Accanto a misure concrete che favoriscano «la partecipazione delle donne a tutti i livelli della gestione sociale», occorre dunque una battaglia culturale che scardini le dicotomie valoriali che ruotano ai soggetti uomo/donna per la costruzione di una collettività più inclusiva, libera e giusta.