Il titolo originale è An, dal nome della marmellata di fagioli che accompagna i dorayaki, dolci della tradizione giapponese. «Sono cinquant’anni che faccio l’An. La marmellata di fagioli va fatta col cuore, figliolo». Ore e ore di preparazione, tenere in ammollo i fagioli azuki, sciacquarli, falli bollire a fuoco lento e poi unirli allo zucchero, mescolarli con grazia facendo attenzione a non far bruciare la marmellata: «Dobbiamo farli abituare allo zucchero è come una giovane coppia al loro primo appuntamento».

 

I consigli arrivano dalla signora Toku, la protagonista del nuovo film di Naomi Kawase (che da il titolo italiano), una gentile e minuta donna di settantasei anni che cucina i dorayaki da mezzo secolo. Quando in una giornata di primavera, punteggiata dalla pioggia candida dei fiori di ciliegio, vede l’annuncio della piccola panetteria di Sentaro per un aiuto part time non si trattiene: «Mi candido per quel posto, ho le mani un po’ deformate, posso avere uno stipendio più basso». Sarà difficile vincere la diffidenza del burbero pasticcere ma una sola cucchiaiata della sua marmellata di fagioli saprà conquistarlo.
L’arrivo di An, che era allo scorso festival di Cannes, nella sezione Certain regard, nelle nostre sale è un evento, nonostante la regista sia un nome molto conosciuto in ambito internazionale, spesso in concorso nei grandi Festival, in Italia almeno al pubblico è praticamente inedita.
An è un piccolo film, e non in termini di budget o di valore ma per quella preziosa tensione di vita ancora più sussurrata che in altre storie della regista giapponese. E che qui affiora nell’incontro tra più generazioni, espressione di diverse solitudini: l’anziana signora dai modi un po’stravaganti, coi suoi segreti preziosi per fare una perfetta pasta An,. L’uomo del chiosco di dolci, dai modi bruschi e poco comunicativi, che invece compra quella industriale, e dunque i suoi dorayaki sono senza sapore e per pochi clienti. Una giovane studentessa che vive con la madre, con cui ha un rapporto di continuo scontro, e trova affetto solo nella compagnia di un canarino che deve nascondere, il condominio dove vivono non accetta alcun animale.

 

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Non ci metti cuore dice la vecchina al suo «allievo», lei ai fagioli parla e sa ascoltarli, riesce sentire le loro voci, e i loro ricordi di vento e di pioggia, cosa è accaduto prima che arrivassero nella sua pentola. E questa capacità dell’ascolto, di mettere insieme vissuti che si trasmettono conoscenze antiche, come quella della pasta An è il la preziosa a cifra poetica del film, che passa sul corpo, e sulle sue cicatrici, le stesse di un’anima che ha conosciuto tempeste.

 

Per ciascuno dei personaggi l’altro diviene rivelazione di un mondo, di sé, del proprio bisogno di sentirsi amato. Ognuno porta i segni della Storia, e di una rigidità sociale fatta di regole che soffocano il cuore in cui si intrecciano i silenzi del passato e le ipocrisie del presente. Se la ragazzina combatte la sua guerra con gli assurdi divieti della «collettività» (e il conformismo della madre) le mani della signora rivelano un lato rimosso del Giappone, la discriminazione contro i malati di lebbra, come è stata lei da giovane, condannati per sempre a vivere lontani dal mondo, rinchiusi nei sanatori anche dopo la guarigione.

 

Quando si è ammalata Toku era solo una ragazza, ma la famiglia l’ha rinchiusa nel lebbrosario da cui non era mai più potuta uscire anche se guarita. Nessun ex malato aveva diritto alla vita sociale, a lavorare, a essere insieme agli altri. Solo nel 1996 è stata approvata una legge che gli permette di varcare la soglia del sanatorio anche se l’emarginazione continua.
L’importanza del passaggio di conoscenza, e questa capacità di ascolto attraversano sempre le storie della regista giapponese che nel raccontarle miscela come la sua protagonista l’impasto di un equilibrio delicato e insieme complicatissimo l’accettazione dell’altro, e la fatica di essere se stessi.

 

Le «lezioni» di Toku (la meravigliosa Kirin Kiki, attrice molto popolare in Giappone) su come preparare la pasta An diventano così come commuoventi lezioni di vita, di resistenza, e ci parlano della battaglia ostinata di qualcuno che ha trascorso il suo tempo cercando di sconfiggere un luogo comune, sempre attuale.

 

Mescolando piani narrativi – ci sono passaggi quasi documentari – Kawase nelle mani deformi della donna traduce nel contemporaneo il trauma del dopoguerra quando appunto un lebbroso era visto come una vergogna e la famiglia doveva sbarazzarsene per il resto della vita.

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Eppure il film respira di grazia e leggerezza, commuove, conquista. Nella sua semplicità riesce a catturare la bellezza, che non sono immagini sontuose ma la poesia dolce e soffusa della vita: un soffio di vento, la luce tra i petali che danzano nell’aria, un albero nel bosco, canarino giallo che ritrova la sua libertà.