Un lettore dell’articolo scritto con Roberto Romano (Crisi economica e sociale, una agenda ineludibile per il cambiamento, pubblicato su il manifesto del 29 agosto) ci ha detto che le nostre proposte «sembrano idee di buon senso».

A me pare che, purtroppo, i suggerimenti che davamo non riflettano ciò che oggi corrisponde al “buon senso”, almeno se con questa espressione s’intenda il senso comune prevalente nell’opinione pubblica e nei responsabili delle scelte economiche e politiche. Come scriveva Gramsci «Ogni strato sociale ha il suo “senso comune” (qui equiparato al «buon senso», nda) che è in fondo la concezione della vita e la morale più diffusa. Ogni concezione filosofica lascia una sedimentazione di “senso comune”… non è qualcosa di irrigidito e immobile, ma si trasforma continuamente, arricchendosi di nozioni scientifiche e opinioni filosofiche entrate nel costume…».

PURTROPPO il buon senso attualmente prevalente rischia di scadere nell’accettazione acritica e retorica di luoghi comuni scollegati dall’evoluzione della realtà. Tra questi c’è, ad esempio, che impegnare circa i due terzi della prossima manovra economica ad impedire l’aumento dell’Iva sia una scelta indiscutibile.

Ma così pensando (e facendo) si sorvola sul fatto che per dedicare 23,2 miliardi a non fare aumentare l’Iva occorrerà trovare altre entrate fiscali o ridurre altre spese, in ossequio alle reiterate e crescenti clausole di salvaguardia figlie della fallimentare politica dell’austerità che, peraltro, avendo messo in crisi anche la crescita della Germania, sembra avviarsi verso una sua riconsiderazione.

MA, NEL FRATTEMPO, attardarsi a seguire il vecchio senso comune preclude la possibilità di un nuovo disegno di politica economica rivolto a massimizzare gli effetti positivi sulla crescita ecologicamente sostenibile e sulla distribuzione del reddito che sono i terreni cruciali e inscindibili per uscire dal nostro declino economico, sociale e civile in atto da decenni.

LA REGRESSIVITÀ dell’aumento dell’Iva e il suo effetto negativo sui consumi possono essere ridotti da una rimodulazione delle aliquote che salvaguardi i beni maggiormente domandati dai ceti meno abbienti; il possibile leggero aumento dei prezzi avrebbe un effetto positivo sul debito pubblico e sulla crescita e non peserebbe sulle disponibilità reali degli appartenenti alle fasce di reddito più basse che andrebbero sostenute da una riforma dell’imposizione fiscale. Ma, soprattutto, dirottare una buona parte di quei 23,2 miliardi verso investimenti e incentivi all’innovazione produttiva e il rilancio del welfare pubblico sarebbe il modo più efficace per alimentare strutturalmente la crescita e la sua qualità.

UN ALTRO LUOGO comune in cui si rischia di cadere nel dibattito sul programma di governo riguarda la riproposizione della riduzione del cuneo fiscale (i contributi sociali pagati dalle imprese e dai lavoratori e le imposte sul reddito di questi ultimi) per diminuire il costo del lavoro e, contemporaneamente, aumentare la busta paga dei lavoratori dipendenti. In Italia il cuneo è pari al 47,6% del costo del lavoro: più del 36,1% della media Ocse, meno del 47,9% della Germania e simile al 47,6% di Francia e Austria.

PER RIDURLO, o si abbassano corrispondentemente le prestazioni sociali (essenzialmente le pensioni) e/o si opera su altre entrate e uscite del bilancio pubblico e/o si accetta che aumenti il suo disavanzo. In passato, le proposte di ridurre il cuneo prevedevano il taglio dei contributi pensionistici delle imprese e la riduzione più o meno corrispondente delle prestazioni pensionistiche attese dai lavoratori cui, in alternativa, si proponevano incentivi all’adesione alla previdenza privata.

LA RIDUZIONE del costo del lavoro per le imprese si traduceva dunque in una redistribuzione a danno dei lavoratori che non era avvertita subito – anzi, nell’immediato c’era anche un aumento della busta paga per i minori contributi pagati dai lavoratori.

TUTTAVIA, nel bilancio pubblico ci sarebbe subito stata una riduzione delle entrate contributive, e questo fu il principale e insuperato ostacolo che si riproporrebbe anche oggi. Ma oggi è anche più chiaro che il sistema pensionistico pubblico non è in grado di assicurare pensioni superiori alla soglia della povertà a circa la metà dei lavoratori attuali i quali sono anche quelli che non hanno i mezzi per accedere alla previdenza complementare. Peraltro, sostituire la previdenza a ripartizione (i contributi attuali finanziano le prestazioni contemporanee) con quella a capitalizzazione (i contributi versati oggi da ciascuno servono a finanziare le sue prestazioni future) implica la necessità immediata sia di nuove risorse (sostitutive dei contributi tagliati) per finanziare le pensioni pubbliche attuali sia di ulteriori risparmi privati per finanziare la nuova previdenza (che per circa il 70% vengono investiti all’estero!).

CON LA RIDUZIONE del cuneo fiscale e la connessa spinta al welfare aziendale – che induce le imprese a sostituire parte crescente della retribuzione monetaria (e i relativi contributi sociali) con prestazioni private (essenzialmente pensionistiche e sanitarie) favorite fiscalmente – non si risolvono le questioni dei bassi salari, della decrescente protezione sociale e del rilancio della crescita.

LA RIDUZIONE del costo del lavoro si ottiene a scapito del bilancio del settore pubblico e del suo impegno in campo sociale, del salario complessivo (busta paga più contributi sociali) e, ancor più, di tutti coloro (la maggioranza dei lavoratori e dei cittadini) che non accedono al welfare aziendale e vedono ridurre quello pubblico.

IL SENSO COMUNE ancora prevalente è che per rilanciare la crescita occorra migliorare i bilanci di ciascuna azienda (riducendo il costo del lavoro), di ciascuna famiglia (risparmiando di più) e dello stato (riducendo il deficit).

Ma questa visione sezionale tende a ridurre la domanda di ciascun operatore economico – imprese, lavoratori, enti pubblici – rispetto alla capacità d’offerta produttiva di tutti gli altri, generando – nell’insieme – disoccupazione, instabilità, povertà, diseguaglianze, scarsità della crescita e della sua qualità.