Le parole fotografano fedelmente i nostri pensieri o è il linguaggio a modellare la mente e a orientare la nostra esperienza? È una domanda che ci siamo fatti tutti, e che la filosofia ripropone da millenni. Nel suo libro più importante, Pensiero e linguaggio, uscito postumo nel 1934, Lev Semënovic Vygotskij la affrontò con la semplicità delle intuizioni rivoluzionarie, a coronamento di una intensa avventura intellettuale: poco più di quindici anni di ricerca teorica e sperimentale grazie alle quali introdusse innovazioni potenti nella psicologia generale, in pedagogia e in quelle che oggi chiameremmo scienze cognitive. Eppure, in pochi se accorsero. In Unione Sovietica le sue tesi furono condannate nel 1936, mentre in occidente un maestro come Jean Piaget ci mise trent’anni prima di ammettere che nella sua disputa con Vygotskij era questo ad avere ragione. A rispondere al perché di una tale incomprensione, che talvolta approdò a una vera e propria avversione solo da poco rimossa, ci aiuta una limpida, preziosa monografia di Luciano Mecacci, Lev Vygotskij Sviluppo, educazione e patologia della mente (Giunti, pp. 169, euro 18,00) scritta dallo studioso italiano che con più tenacia e lucidità ha contribuito a restituire allo psicologo sovietico il suo autentico rango scientifico.

La natura del significato

Torniamo alla domanda iniziale: è il pensiero a condizionare gli enunciati linguistici o viceversa? Vygotskij fece notare che questo interrogativo, in sé legittimo, è viziato dal fatto che i due termini della relazione vengono concepiti come qualcosa di già dato e di ben definito indipendentemente dal fatto che la loro relazione non solo coordina due funzioni geneticamente distinte (un primate, ad esempio, fa operazioni cognitive complesse pur senza disporre della parola), ma si modifica nel corso del tempo, producendo nelle sue singole tappe evolutive forme di integrazione diversificate.

L’intuizione di Vygotskij era dunque tanto semplice quanto radicale: pensiero e linguaggio non coincidono, e tuttavia tra i due si delineano aree di intersezione in cui si producono decisivi processi di integrazione: la più evidente è costituita dal significato (cioè dalla funzione semantica del linguaggio), che è al tempo stesso un fenomeno cognitivo e un fenomeno verbale.
Ora, ciò che c’è qui di più rilevante sta nel fatto che i significati delle parole non sono fissi ma si sviluppano secondo un processo che va dal pensiero alla parola e viceversa, in un gioco di feedback reciproci che procede a una complessiva riorganizzazione sia del pensiero sia del linguaggio. È per questo che la nostra esperienza è in continua potenziale rigenerazione.

Vygotskij ripropose questa tesi sul piano sperimentale distinguendo un linguaggio interno e uno esterno.

Il linguaggio esterno è un processo di trasformazione del pensiero nella parola; quello interno un processo di «volatilizzazione del linguaggio nel pensiero». Questo duplice movimento è talmente formativo, per noi, da potersi considerare come un elemento essenziale della nostra individuazione. Ecco il ragionamento di Vygotskij: l’apprendimento del linguaggio ha uno statuto in prima battuta pragmatico e comunicativo (inizialmente noi parliamo il linguaggio che abbiamo ricevuto da altri e lo usiamo per gli altri) e solo in una seconda fase diventa autenticamente cognitivo e autopoietico (è il nostro linguaggio e ci caratterizza per quel che siamo e che sappiamo). Questa seconda fase è inaugurata dal cosiddetto linguaggio egocentrico, il monologo che il bambino intrattiene con se stesso, studiato tra gli altri da Jean Piaget.
Il bambino accede a una vasta sperimentazione dei significati linguistici, effettuata in stretto rapporto con un’attività operativa: il linguaggio egocentrico, infatti, si produce soprattutto giocando, manipolando oggetti e strumenti, risolvendo problemi tecnici e operativi, dunque saldandosi e intrecciandosi con l’ambito delle attività che oggi si usa riferire a una «mente estesa», a un’attività cognitiva che non è racchiusa nella scatola cranica.

Si è constatato, tuttavia, che intorno ai sette anni il linguaggio egocentrico viene meno. Per Vygostskij – e sta qui la sua disputa con Piaget – non si tratta di una scomparsa ma di una introiezione. Sarebbe solo la forma fonica del linguaggio egocentrico a eclissarsi, ma non la sua fondamentale funzione di intreccio col pensiero e con le pratiche strumentali, che anzi si rafforza proprio a misura del fatto che il linguaggio egocentrico è ora diventato un «discorso interno» e verrà dunque utilizzato costantemente dal parlante non solo come laboratorio della sua competenza semantica, ma anche come fondamento dei processi di individuazione.

Semantica plastica

La posta in gioco come si vede è altissima. Osservato nella sua interezza, e cioè come un processo di interiorizzazione, il dispositivo messo in luce da Vygotskij ci fa vedere due elementi decisivi. Il primo è che inizialmente il linguaggio si dispiega in un ambito caratterizzato dalla trasmissione sociale e culturale dei significati e dei connessi ambiti tecnico-strumentali. La cognizione umana, in altri termini, ha un fondamento storico-sociale: al contrario delle specie animali che dispongono di comportamenti cognitivi complessi ma non sono in grado di consegnarne i prodotti alle generazioni successive, il linguaggio garantisce agli umani la trasmissione culturale.
Il secondo elemento è che il processo di interiorizzazione non si limita all’assunzione di contenuti, condotte e protocolli operativi ricevuti dalla tradizione ma coincide con una riarticolazione dei rapporti tra pensiero e parola. Nel corso di questa riarticolazione, alle significazioni del linguaggio esterno viene conferita una condizione di plasticità che le rende disponibili a valorizzare altre pertinenze semantiche oltre a quelle istituzionalizzate, altri sensi possibili oltre ai significati trasmessi dalla propria cultura.

Le affinità di Ejzenštejn

Stando così le cose, si può capire il sodalizio strettissimo che il grande artista e teorico delle arti Sergej Ejzenštejn strinse nei primi anni trenta con Vygotskij, alla vigilia della prematura morte del quale scrisse: «le leggi di costruzione del linguaggio interno sono le stesse che si trovano alla base dei più efficaci principi costruttivi della produzione artistica». Intendendo alludere al fatto che l’arte nasce precisamente in quello straordinario laboratorio in cui la tradizione viene fluidificata e riorganizzata in vista di soluzioni creative nuove e individuanti.