Se è vero quanto dice Pedro Costa per cui se non si rischia a ogni inquadratura, il film non ha valore, il cinema più intenso va cercato oggi nel cuore delle foreste e in mezzo al mare. Ci sono luoghi, per esempio, in cui il diritto all’istruzione non è scontato, in cui spicchi non trascurabili della popolazione sembrano condannati a un destino di dominazione già scritto. Ma c’è chi non si rassegna. Parte da questo spunto il documentario Makongo del giovane regista centrafricano Elvis Sabin Ngaïbino, che si era fatto notare al parigino Cinéma du Réel ed è ora uno dei titoli della selezione internazionale di Filmmaker festival disponibile sulla piattaforma Mymovies (fino alle 14 del 1° dicembre).

Il film è girato nel villaggio di Mongoumba, dove i pigmei Aka vivono in accampamenti al bordo della foresta, ai margini di una società che li discrimina e nega loro ogni diritto. Assillati dalla scarsità, sopravvivono di baratti, si nutrono di quel che dona loro una terra avara, si lavano ricavando l’acqua da pozze nella foresta e conquistano ogni piccolo bene con sacrifici e contrattazioni.

IN TALE CONTESTO, André e Albert si preparano a ottenere il diploma magistrale e oltre a studiare insegnano gratuitamente a leggere, scrivere e contare ai bambini della zona. I due credono nella scuola come possibilità di riscatto per i pigmei ma per iscrivere i loro piccoli scolari a un vero istituto sono necessari soldi che contano di racimolare vendendo in città il raccolto annuale dei bruchi (i makongo del titolo), principale risorsa economica degli Aka. In realtà, prima ancora di averli guadagnati, quei soldi sono già in parte ipotecati dalla dote che uno dei due deve pagare al padre della sua sposa. Come se non bastasse, al mercato di Bangui dove giungono dopo una giornata di cammino e una notte all’addiaccio, nessuno si fa scrupoli nel cercare di truffare due poveri pigmei. André e Albert sono costretti a estenuanti contrattazioni, soggetti a fregature, a infinite piccole angherie: «Ti do i gessetti per la scuola ma sono tutti rotti», «ti compro i bruchi ma me ne regali una bella porzione», «amico sii gentile, fammi un favore, fammi un regalo, dammi questo, dammi quello». L’egoismo degli adulti riuscirà a permettere a tutti i bambini che lo vorrebbero di iscriversi a scuola? In questa parabola sociale raccontata con le forme di un documentario di osservazione immerso in una giungla non facile da filmare, i due protagonisti perseverano nonostante l’ostilità di un mondo piagato dalle logiche mercantili.

«MAKONGO» mostra la difficoltà di rendersi liberi ed è anche un film sulla generosità e l’asprezza della foresta, sulla forza e la vulnerabilità di una comunità che vive con la corda al collo del debito e con il marchio dalla discriminazione, realizzato da una distanza che è allo stesso tempo rispettosa e piena di affetto.
Fino alle 14 di martedì sarà disponibile sempre su Mymovies anche Purple Sea di Amel Alzakout e Khaled Abdulwahed, film siriano che scompagina i presupposti e gli stilemi di un cinema della migrazione che negli ultimi anni ha raccontato molto l’accoglienza, la solidarietà e l’incontro tra «noi» europei e «loro» migranti. Questa volta la prospettiva è tutta interna al viaggio, al desiderio di una vita degna, al terrore della morte tra le onde del Mediterraneo. Due punti di vista in realtà si intersecano, quello della videocamera subacquea che Amel aveva con sé il giorno in cui il barcone su cui viaggiava verso Lesbo fece naufragio e quello alla prima persona della sua voce narrante che come in un lungo flashback racconta tutto quanto l’aveva condotta su quel motoscafo, in attesa di soccorsi che forse non sarebbero arrivati in tempo per salvare tutti i naufraghi.

ARTISTA e filmmaker, Alzakout aveva infatti tentato diverse volte, senza successo, di ottenere un visto per raggiungere in Germania il suo compagno Khaled Abdulwahed. E così, mentre lui vive in asilo politico a Berlino, lei intraprende un viaggio della speranza che rischia di finire in tragedia. Sott’acqua, piedi e gambe che tentano di tenere i corpi a galla calzano ancora scarpe da ginnastica e jeans, esprimendo tutto l’assurdo di momenti sospesi tra la vita e la morte. Si percepisce assillante e appena ovattato il suono delle urla e dei fischietti usati per richiamare l’attenzione dei soccorsi. La morte è presente, palpabile, visibile tra le ombre nell’azzurro. Le immagini veicolano confusione e terrore mentre la narrazione ha la tenerezza dei ricordi d’amore e di speranza.

Amel narra la Siria e la fuga prima a Beirut e poi a Istanbul, l’incontro con Khaled, le manifestazioni per la libertà, l’impegno politico e creativo con tutto il suo carico di rischi e aspettative, l’adrenalina della militanza, dei progetti condivisi, lo strazio della separazione, la voglia di ritrovarsi. Poi la fatica e lo sconforto prendono il sopravvento, la narrazione dà forma al timore che lui non l’attenda, che si costruisca una vita senza di lei, dimentico delle promesse e dei sogni fatti insieme. A cosa serve tanta fatica e tanto rischio se poi il risultato è la delusione e la solitudine? Per più di sei ore i naufraghi hanno dovuto attendere tra le acque gelide e violente, sempre pronte a inghiottire qualcuno. Quando i soccorsi giungono, infine, quel che Amel coglie non è certo la benevolenza di una mano tesa bensì la rapacità di un occidente incapace di dare senza chiedere in cambio qualcosa.