Un anno fa, alla veneranda età di 89 anni, ci lasciava Marcello Cini, mio padre.
Benché, come ha lui stesso ripetuto molte volte, abbia avuto una vita piena e lunga, sono in molti, credo, a sentirne la mancanza.
Come figlio, ho sempre immaginato che Marcello fosse una persona che aveva parecchie cose da dire e tra l’altro alcune piuttosto originali, ma che non si esprimesse tanto bene. O almeno, che detestasse le semplificazioni, a danno forse della sua comprensibilità.
Ha insegnato Fisica delle particelle e meccanica quantistica per gran parte della sua vita. Ha persino insegnato il rapporto tra scienze e società ai metalmeccanici nelle 150 ore.
Ha preso parte al tribunale di Bertrand Russell, che lo aveva chiamato per andare in Vietnam, a testimoniare sui crimini di guerra.
Ha scritto una decina di libri e moltissimi articoli, scientifici, politici, persino filosofici.
Ha pure provato a fare dei comizi, nel suo impegno di militante politico.
Insomma non gli sono mancate le occasioni per esprimersi.
Eppure ha sempre avuto un po’ il cruccio di non essere stato tanto ascoltato.
Ricordo il suo stupore, e la sua allegria, quando – del tutto inaspettato, da persone completamente al di fuori del suo «giro» – gli venne conferito il premio Nonino «a un maestro italiano del nostro tempo».
In realtà le sue intuizioni sull’ambiguità del progressismo e sulla non oggettività del pensiero scientifico, alla fine degli anni ’60, erano considerate da tutti i suoi colleghi un’eresia un po’ bislacca.
Le sue previsioni sui limiti dello sviluppo e sull’implosione ambientale del pianeta, agli inizi degli anni ’70, sembravano apocalittiche e esagerate.
La sua battaglia contro il nucleare, all’inizio degli anni ’80, allarmista e velleitaria.
Non so come siano state recepite le sue ultime opere, sul rovesciamento dell’economia reale e l’inquietante dominio di quella immateriale, dai brevetti all’informazione.
Certo, non è stato l’unico a avventurarsi in questi temi, eppure sicuramente in molti è stato un precursore.
Col manifesto, malgrado tutti i suoi momenti di amore-odio, di entusiasmo e delusione, ha sempre mantenuto un legame tutta la vita: il giornale ha fatto parte delle sue passioni e dei suoi pensieri. E «il manifesto» ha ospitato con coerenza e perfino con affetto le sue idee e lo ha considerato, giustamente, uno dei suoi padri fondatori. Del resto Marcello fu radiato dal Pci proprio per aver fatto parte del gruppo storico di chi mise in piedi la rivista. La sua grande amicizia con Luigi Pintor, e poi con Valentino e Rossana, e soprattutto con Michelangelo Notarianni, ha mantenuto per anni questo legame politico e affettivo.
Oggi ci tenevo a ricordarlo proprio perché se è vero che tante sue intuizioni un po’ eterodosse sono diventate senso comune anche per chi lo aveva avversato, potrebbe voler dire che qualcosa della sua opera (perlomeno recente) varrebbe la pena di essere riletta e ripensata. Vorrei anche ricordarlo per la sua coerenza morale e per la sua umiltà verso la conoscenza: sempre curioso e con poche certezze. Come spesso amava ripetere «non si finisce mai di imparare».